Emilio Salgari

La caduta di un impero


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qualche po’ a osservare la campagna, poi, passando di galleria in galleria, raggiunse la macchina che era condotta da due indiani più neri degli africani.

      Nessuno del personale viaggiante aveva osato fermarlo o fargli qualche osservazione. I bramini erano ancora troppo potenti e perfino troppo rispettati anche dagli inglesi.

      Il macchinista, vedendolo giungere gli era subito mosso incontro per aiutarlo, ma il sacerdote, agile, e nello stesso tempo robusto, dal carro del carbone saltò sulla macchina senza perdere l’equilibrio. «Dove ci fermeremo prima, Chaifassa?» chiese. «A Bogra, dove i viaggiatori faranno colazione». «Quando giungeremo al posto fissato dai congiurati?»

      «Verso la mezzanotte, signore. La via scende, ed il treno corre con una velocità straordinaria». «Saranno pronti i nostri uomini?» «Certamente, signore». «È la Jungla Gialla che andrà in fiamme, è vero?»

      «Sì, ed il treno vi lascerà tutte le sue vetture, e fors’anche tutti i suoi passeggeri».

      «Degli altri non mi occupo» disse il bramino, il quale pareva assai di cattivo umore. «A me basta di troncare il viaggio a quei due pretesi principi assamesi che mi sono stati segnalati già da ventiquattro ore fa alla stazione di Rampur». «Sono con voi?» «Nel mio stesso scompartimento». «Quando arresteremo la macchina dovremo gettarci subito su quegli uomini?»

      «Tu sei uno stupido» disse il bramino. «Sono bene armati, e poi vi sono quasi cento viaggiatori nel treno. Bell’affare che faresti. Tu, il macchinista, che cerca di arrestare delle persone!… Saresti preso tu invece, mio caro. Chi ci aspetta alla prima stazione?»

      «Un fuochista che già vi conosce e che si metterà subito a vostra disposizione. Probabilmente avrà qualche ordine da comunicarvi». «E noi non bruceremo?»

      «Arresterò il treno in tempo per metterci in salvo, poi aprirò le valvole e lo lancerò a corsa sfrenata dentro la fornace. Quando udite tre fischi, balzate subito a terra». «Per rompermi il collo?»

      «Arresterò subito il treno. Ricordatevi l’ora: giungeremo alla Jungla Gialla verso mezzanotte».

      «E se i due principi assamesi, malgrado il nostro piano infernale, sfuggissero al disastro?»

      «Sapremo ritrovarli, signore, e li fermeremo prima che possano raggiungere qualche altra stazione per prendere qualche altro treno. Quelle persone non devono entrare in Calcutta: questo è l’ordine comunicatoci dall’ex rajah».

      «E noi obbediremo» disse il bramino. «Conduci però l’affare in modo che non restiamo biscottati anche noi». «Ho prese tutte le mie misure e potete essere tranquillo». «Troveremo altri amici scaglionati lungo la linea ferroviaria?»

      «In tutte le stazioni vi sarà qualche uomo fidato. Ve lo dico per l’ultima volta: quando io arresterò il treno e lancerò tre fischi, scappate subito. Io saprò ritrovarvi insieme al fuochista». «Siamo d’accordo».

      Il bramino attraversò il tender e saltò nella prima galleria. Essendo tutte le stuoie abbassate, nessuno aveva fatto attenzione a lui, e poi i viaggiatori, spossati dal caldo, dovevano sonnecchiare in attesa della colazione che li aspettava a Bogra.

      Continuando il cammino giunse al suo scompartimento pieno di fumo come una zolfatara, poiché né Kammamuri né Timul avevano cessato di pipare.

      «Non avete ancora finito?» chiese, sbattendo violentemente lo sportello e facendo un gesto d’ira.

      «Che cosa volete che facciamo, signor sacerdote, con questo caldo?» disse Kammamuri. «Non si può nemmeno dormire». «Vi guasterete l’appetito».

      «Oh, no, e voi vedrete che quando giungeremo alla fermata noi faremo onore alla colazione che abbiamo ordinata». «Vi siete giurati di farmi arrabbiare». «Cambiate scompartimento, signore».

      «Vi sono troppi inglesi negli altri carrozzoni, ed io non mi ci trovo con quei signori che ci guardano dall’alto in basso».

      «Allora dovreste imitarci. Volete qualche sigaretta? Il tabacco dell’Assam è più fino e più gustoso di quello del Bengala». «I bramini non devono fumare».

      «Ah, è vero» disse Kammamuri un po’ ironicamente, poiché sapeva che nelle loro case, e anche nei loro templi, ne usavano e assai largamente. «Qui non vi è nessuno che vi possa vedere». «E voi, chi siete?» «Ma noi, signor sacerdote, chiuderemo tutti quattro gli occhi». «Voi avete voglia di scherzare, mentre io sono invece assai preoccupato». «Per la disgrazia che voi supponete debba succedere?»

      «Sì, mio principe» rispose il bramino. «Più che ci penso, il mio cervello mi ripete sempre che prima che noi arriviamo a Calcutta dovrà succedere qualche cosa di terribile».

      «Io sono invece perfettamente tranquillo, signor sacerdote, poiché io ho piena fiducia in questo treno e nel suo personale. Se avete paura fermatevi alla prima stazione e tornate indietro» disse Kammamuri.

      «È impossibile. Devo trovarmi nella regina del Bengala per fare i funerali ad un mio ricchissimo parente il quale non si sarà dimenticato, prima di morire, di pensare un po’ anche al suo nipote bramino».

      «Allora, signor sacerdote, gettate da parte le cattive previsioni e andate a raccogliere l’eredità. Ecco che il treno fischia e rallenta. Siamo già a Bogra, e mi pare di sentire un buon profumo di colazione. Anzi, se vorrete tenerci compagnia, noi ne saremo ben lieti».

      «Accetto il vostro invito, ma io non mangerò all’inglese. Mi accontenterò di un po’ di carne e di un piatto di verdura cucinata nell’olio di cocco». «Voi farete, signor sacerdote, come vorrete, e penseremo noi a pagare». La macchina fischiava furiosamente, mentre il treno continuava a rallentare.

      Tutti i viaggiatori erano usciti sulle gallerie. Vi erano dei funzionari, per la maggior parte vecchi, che tornavano colle loro famiglie dalle stazioni di montagna del Sikkim, pochi ufficiali e molti negozianti invece che avevano già fatto le piazze dell’alta India e certamente con buona fortuna. Erano una novantina e fra loro non si trovava nessun indiano.

      Il treno attraversò una piccola foresta di cocchi, poi giunse improvvisamente dinanzi alla stazione, dove si fermò con una scossa violentissima, che gettò i viaggiatori l’uno addosso all’altro.

      Bogra non era allora che un semplice villaggio formatosi intorno ai bungalow della stazione, assai eleganti questi e molto ben tenuti, scendendovi sempre numerosissimi viaggiatori. Aveva anche una piccola guarnigione formata da due dozzine di sipai, forze sufficienti per tenere lontani i briganti delle foreste.

      Sotto una vasta tettoia erano stati preparati i tavolini, coperti di candide tovaglie, e vi si aggiravano i servi dell’albergo, tutti indiani, pronti alle chiamate.

      Kammamuri, Timul ed il bramino lasciarono che si accomodassero prima gli inglesi, poi presero posto ad una tavola collocata sotto un folto banano che sorgeva di fronte al bungalow centrale e che spandeva un’ombra deliziosa.

      Dovendo il treno fermarsi tre ore, potevano mangiare tranquillamente, senza troppa fretta e anche molto chiacchierare.

      I due pretesi principi assamesi che avevano già fatto telegrafare dal servo dell’albergo, che viaggia sempre sui treni, furono serviti quasi contemporaneamente agli inglesi, e non si fecero pregare per attaccare l’abbondante colazione a base di carne, di patate e di banani arrostiti, con burro freschissimo e panini bene arrostiti e birra eccellente.

      Il bramino, colla scusa di andare in cucina a chiedere notizie del suo carri e del suo piatto di verdura, lasciò il maharatto ed il giovane cercatore di piste, e dopo d’aver fatto un giro sotto la tettoia, si avvicinò alla macchina che ronfava sordamente.

      Il macchinista, scorgendolo, era subito balzato a terra, dopo d’aver dato ordine al fuochista di preparare qualche cosa da mangiare. «Dove sono i vostri uomini, signore?» chiese al bramino. «Stanno per finire la loro colazione». «Non hanno nessun sospetto su di voi?»

      «Assolutamente nessuno. Anzi, stiamo per diventare un po’ amici. È giunto il messo di Sindhia?» «Sì, ed è anche ripartito. Non osava avvicinarvi per paura di tradirvi». «Forse ha fatto bene. Quali nuove abbiamo dunque?»

      «Nella