sta per giungere».
Ricaricarono le armi, si aggrapparono alle corde e si calarono dinanzi alla porta maggiore del tempio.
Degli alberi bruciavano stentatamente, mandando più fumo che fiamme. Era una fortuna, poiché gli sikkari rimanevano quasi nascosti dietro a quei nuvoloni che a poco a poco si dilatavano, essendovi anche non poche piante gommifere. Al di là, oltre quel velame fumigante, le carabine dei rajaputi, adoperate fortunatamente da quei maldestri paria, tuonavano sempre, senza che si sapesse dove le palle andassero a finire. Probabilmente sparavano ancora contro il finestrone, credendo che il maharajah ed i suoi compagni si trovassero ancora nascosti fra le gigantesche proboscidi degli elefanti. Yanez gettò uno sguardo intorno, ascoltò un momento, poi disse: «Al trotto!… Sahur si avvicina!…»
Si slanciarono tutti attraverso la foresta, fiancheggiando però sempre l’imponente pagoda e, dopo d’aver percorsi oltre duecento metri, si arrestarono in mezzo ad una foltissima macchia.
«Yanez» disse Tremal-Naik. «Hai udito per caso il barrito degli elefanti di pietra? Non vedo giungere nessuno».
«Per Giove!… Io ho udito!…» rispose il portoghese. «Ti dico che un elefante vivo poco fa galoppava verso la pagoda». «Che si sia fermato in qualche luogo?»
«È probabile. Il cornac ha paura dei paria e non dobbiamo rimproverarlo. Eh!… Odi?» «Sì, un barrito!…» «Ed a pochi passi da noi». «Si è fermato e ci aspetta». «E se fosse montato da rajaputi?»
«Noi non li risparmieremo, Tremal-Naik!» rispose Yanez, con rabbia. «Sono troppo stanco di tradimenti… Per Giove! Che cos’è questo fracasso? Si direbbe che quindici o venti elefanti si precipitino attraverso la foresta tutto atterrando sul loro passaggio». «E quei pachidermi saranno i tuoi che cercano di dare la caccia al cornac». «Ah!… La vedremo!…»
Colle mani fece portavoce e per tre volte, mentre dietro la nuvolaglia di fumo continuava a rombare la moschetteria, gridò: «Chi viene a salvare il maharajah dell’Assam? Mille rupie guadagnate».
Aveva appena pronunciate quelle parole quando si vide Sahur, col suo valoroso cornac, uscire da una folta macchia ed avanzarsi rapidamente. «Montate, Altezza!…» gridò il conduttore, gettando la scala. «Sono inseguito». «Dai rajaputi?» «Dai vostri elefanti montati non so da quali briganti».
«Su, in alto!…» gridò Yanez, spingendo prima i due prigionieri che non voleva assolutamente perdere.
In un momento furono nella cassa, rovesciarono la cupoletta per poter aver maggior campo per servirsi delle carabine, ed il bravo elefante, quantunque dovesse aver fatto una lunga corsa, si slanciò a corsa sfrenata, rasentando le nuvole di fumo.
I paria, udendo i barriti si erano precipitati fuori della macchia, ma otto colpi di carabina li decisero subito a scappare. D’altronde Sahur caricava sfrenatamente, menando colpi di proboscide a destra ed a sinistra.
Guai se si fossero trovati sul passaggio di quell’intrepido bestione che non temeva né belve né uomini.
In lontananza intanto si udivano barrire molti altri elefanti, e rombavano dei colpi di carabina.
«Non temete, Altezza» disse il cornac di Sahur. «Abbiamo un vantaggio di almeno un miglio, e questa bestia è la più rapida di quelle che possedevate. Ora che vi ho ritrovati non ho più paura, e vi prometto di condurvi alla capitale prima ancora che spunti l’alba». «Come hai fatto ad impadronirti di questo bravo elefante?»
«Ho semplicemente fischiato. Tutti i pachidermi stavano sdraiati intorno alle rive d’uno stagno, divorando…»
«Il séguito dopo!…» gridò Yanez, balzando in piedi. «Queste canaglie di paria, pare impossibile, hanno nelle loro vene qualche goccia di sangue di guerrieri. Non mi sarei mai immaginato che fossero così coraggiosi!»
Trenta o quaranta indiani, armati chi di carabine e chi di cerbottane, si erano slanciati fuori della boscaglia a corsa sfrenata, cercando di tagliare la via all’elefante.
Giungevano però troppo tardi, poiché Yanez, Tremal-Naik e gli sikkari, avevano avuto il tempo di ricaricare le carabine. Una scarica formidabile, lanciata da mani sicure, apriva una vera breccia attraverso a quei poveri combattenti, che forse armeggiavano per la prima volta colle armi da fuoco. Sahur, il formidabile elefante, si cacciò dentro l’apertura, e trovato sul suo passaggio un paria che non aveva fatto a tempo di fuggire, lo afferrò colla proboscide, con una formidabile stretta gli spezzò le costole, poi lo scaraventò contro il tronco d’un albero, sfracellandolo. Il passo era libero. I paria, spaventati dalla carica furiosa dell’elefante, erano scappati come nilgò, rifugiandosi nella folta foresta.
«Per Giove!…» disse Yanez, dopo di aver sparato un ultimo colpo di carabina. «Non sono troppo solidi i guerrieri di Sindhia». «Ed è per questo che porta via i tuoi rajaputi» rispose Tremal-Naik.
«Ed a quelli noi opporremo i montanari di Sadhja e le Tigri di Mòmpracem che condurrà qui Sandokan. Via, cornac!…»
Non c’era bisogno di eccitare l’elefante. Il bravo pachiderma correva a gran trotto, sballottando terribilmente le persone che si trovavano radunate nella cassa. In lontananza si udivano degli spari e dei barriti. «Ci danno la caccia, è vero, cornac?» chiese Yanez. «Sì, Altezza, e coi vostri elefanti». «Si lascerà raggiungere Sahur?» «No, no: è il migliore dei vostri animali e filerà come una tromba di vento». «Fra gli uomini che montavano gli elefanti hai veduto tu i miei rajaputi?»
«No, Altezza, neppure uno. Tutte le haudah erano piene di paria e d’altri uomini che l’ex rajah deve aver arruolati sui confini del Bengala».
«Che cosa ne avrà fatto dunque dei miei uomini? Che li abbia uccisi? Da quel tiranno c’è da aspettarsi qualunque bricconata compiuta in grande, con spreco di sangue».
«Non credo che i tuoi rajaputi siano dei conigli per lasciarsi macellare senza difesa» disse Tremal-Naik. «Tu, cornac, non hai udito grida nell’accampamento?» «No, sahib».
«Allora Sindhia li avrà fatti allontanare per ora, per servirsene più tardi nel grande urto».
«E ciò m’inquieta» disse Yanez, il quale fumava rabbiosamente la sua ultima sigaretta. «Mai più mi aspettavo una simile tempesta!… C’è del tempo però, e non lascerò portarmi via la corona senza dare delle terribili battaglie. Eccoci già in vista della capitale. Come fila questo bravo Sahur!…»
Spuntava allora l’alba e sul nitido orizzonte, tinto d’un rosa tenerissimo, si profilavano le pagode della grande città. Ormai non si udivano più né barriti di elefanti né colpi di fucile.
I congiurati, persuasi ormai di non poter raggiungere il velocissimo Sahur, e non volendo troppo mostrarsi in luoghi abitati, si erano fermati per ritornare poi verso la pagoda dove si trovavano i loro compagni. La strada era buona, aperta fra grandi risaie, già piene di contadini e di contadine, e non vi erano più foreste per temere qualche nuova imboscata. Sahur, che pareva inesauribile, con un ultimo slancio raggiunse il ponte levatoio del bastione di Karia e condusse, sempre al galoppo, il maharajah ed i suoi cacciatori dinanzi alla elegante palazzina, circondata da una doppia fila di rajaputi. Vedendo quei guerrieri, Yanez ebbe un sorriso pieno d’amarezza.
«Si potrebbe crederli fedeli» disse a Tremal-Naik. «Chissà invece che cosa pensano nei loro cervelli. Conoscere questi mercenari è un po’ difficile».
Fece gettare la scala, scese portando la sua grossa carabina e le sue pistole, e seguito dal vecchio cacciatore entrò nel suo salotto, certo di trovarvi Surama.
La piccola rhani si trovava infatti là, guardata dal cacciatore di topi che si era messo nella fascia quattro pistoloni e due tarwar, e stava cullando il piccolo Soarez che aveva preso dalle braccia della nutrice.
«Ah, mio signore!…» esclamò, alzandosi impetuosamente. «Io ti piangevo già come morto».
«Perché, Surama?» chiese il portoghese, affettando la massima calma. «Non sono un uomo da farmi uccidere come un nilgò, né da farmi prendere. Sappi però che Sindhia ci ha portati via tutti i nostri elefanti ed i duecento rajaputi che ci scortavano. Quel briccone comincia a diventare estremamente