Emilio Salgari

La caduta di un impero


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le loro carabine, poi a due, a tre, tenendo sempre bene gli occhi addosso ai due prigionieri, si lasciarono scivolare fino a terra. Gli elefanti erano stati fermati un migliaio di metri dal tempio, non credendo Yanez di averne bisogno, quindi il drappello doveva riattraversare un lembo della foltissima foresta.

      A cinquecento passi però dovevano trovarsi i rajaputi, quindi non vi era alcun pericolo da correre.

      Lo stupore di Yanez e dei suoi compagni non ebbe più limiti, quando percorsa una distanza quasi doppia, non scorsero un solo guerriero indù.

      «Come va questa faccenda?» si chiese il portoghese, tormentando il grilletto della carabina. «Io non posso ammettere che abbiano avuto paura e che siano scappati».

      «Eppure non vi sono più» disse Tremal-Naik, con voce angosciata. «Che qui, quasi sotto ai nostri occhi, sia stato commesso qualche nuovo tradimento da parte dei congiurati?» Yanez lo guardò con ispavento. «Che cosa vorresti dire tu?»

      «Che anche i nostri creduti fedeli rajaputi sono stati corrotti e condotti chissà dove a rinforzare le schiere di Sindhia». «Ma se siamo stati assenti appena un’ora!…» «In un’ora certe volte si fanno delle cose straordinarie». «Che abbiano portati via anche i nostri elefanti?» «È questo ora che pavento» disse Tremal-Naik.

      «Non mancherebbe altro!… Là, là, non perdiamo il nostro sangue freddo, e prepariamoci a rispondere se si tenta di attaccarci. La foresta è fitta d’altronde, e non si presta troppo per un grosso attacco. Mettiamoci su due file, coi prigionieri in mezzo, ed andiamo a vedere che cos’ha saputo fare quel cane di Sindhia. Altro che pazzo!… È un gran furbo che vale quanto noi, ora me ne accorgo! Orsù, avanti».

      Ripresero la marcia tenendosi in mezzo ai cespugli più folti, e dovettero purtroppo convincersi che i rajaputi si erano allontanati.

      «Ecco qui le loro tracce» disse Tremal-Naik, arrestando il drappello. «Qui quattro dei nostri sono passati e non da molto tempo». «Quattro» disse Yanez. «E tutti gli altri? Erano duecento». «Il loro comandante ti aveva mai dato alcun motivo per diffidare di lui?» «Mai, Tremal-Naik».

      «Allora non capisco più nulla. Uccisi non sono stati, perché avremmo trovato almeno qualche cadavere, e poi non abbiamo udito nessun sparo. Come siamo stati giuocati, mio caro Yanez. Non mi aspettavo un simile colpo».

      «È la corona della rhani che comincia a sgretolarsi» rispose il portoghese, sospirando. «Bah, non creda Sindhia d’aver vinta così presto la partita. Se non possiamo contare più sulla fedeltà dei rajaputi, faremo accorrere i montanari di Sadhja, e quelli non ci tradiranno perché odiano troppo Sindhia». «E poi giungeranno i nostri dalla Malesia». «Purché facciano presto!…»

      Si erano nuovamente fermati per osservare le tracce lasciate dai fuggiaschi e per trovare un nuovo passaggio. Erano tutti inquieti, nervosi, temendo di subire, da un momento all’altro, qualche scarica di fucili.

      Trovato uno stretto sentiero, aperto probabilmente dai nilgò, vi si cacciarono dentro camminando curvi curvi, e cercando di non far rumore. Di quando in quando si arrestavano per ascoltare, ma non udivano né voci d’uomini, né barriti d’elefanti.

      Solamente delle scimmie ungko gridavano a squarciagola sulla cima delle più alte piante, divertendosi a spiccare dei salti immensi, superiori perfino ai dieci metri.

      Il drappello, tenendosi sempre nascosto, percorse altri tre o quattrocento passi e sbucò finalmente in una piccola radura. Era là che si erano fermati gli elefanti.

      «Spariti!…» aveva gridato Yanez, facendo un gesto di disperazione. «Ah!… I traditori!… Nemmeno sui cornac potevo contare».

      «V’ingannate, maharajah» disse un uomo sorgendo bruscamente fra un gruppo di bassi cespugli. «Io sono il cornac di Sahur, e come vedete vi sono rimasto fedele».

      Tutti si erano precipitati incontro al conduttore, il quale pareva in preda ad una viva agitazione. «Dov’è Sahur?» gli chiese Yanez. «Ve l’hanno portato via anche quello». «Ma chi?… Chi?…» «I rajaputi». «Possibile?»

      «Sì, mio signore. Tutti quegli uomini dovevano essere stati già arruolati dall’ex rajah ancora prima che lasciassero la vostra capitale».

      «E la mia polizia non si è accorta di nulla!… Ah!… Canaglie!… Siamo in mezzo ad un vero esercito di traditori».

      «Narra che cos’è accaduto» disse Tremal-Naik rivolgendosi al cornac, il quale non si era ancora rimesso dalla sua grande agitazione.

      «Eravate partiti da forse venti minuti quando abbiamo veduto i rajaputi giungere di gran corsa, seguiti da un elefante nella cui cassa si trovava un fakiro, se non m’inganno. Intimarono a noi di arrenderci, dicendoci che ormai era il rajah Sindhia che regnava sull’Assam e non più il maharajah né la rhani. Ho Ho avuto appena il tempo, approfittando della confusione, di gettarmi in mezzo ai cespugli abbandonando al suo destino il mio elefante che ormai non potevo difendere. Io ho veduto il fakiro consegnare ai traditori molti sacchetti pieni certamente d’oro, poi tutta la banda si allontanò montando i vostri elefanti».

      «Si sono diretti verso la capitale, i rajaputi?» chiese Yanez, con estrema ansietà. «No, mio signore, si sono internati nel bosco dirigendosi verso il sud». «Sei ben sicuro che siano partiti tutti?»

      «Non ne deve essere rimasto uno solo qui. Erano tutti sulle haudah degli elefanti». «Chi li guidava?» «Il fakiro». «E Sahur ti ha abbandonato?»

      «Io spero, mio signore, di riaverlo ben presto» rispose il cornac. «Appena udrà il mio fischio accorrerà a gran galoppo e mi raccoglierà. Non aspetto altro che i rajaputi facciano una fermata».

      «Ma rimarrai troppo indietro» disse Tremal-Naik. «Dovresti essere già partito».

      «Corro come un cavallo, e poi la boscaglia è folta e gli elefanti non potranno avanzare che al passo. Avrei già lasciato questo posto ma mi premeva avvertirvi di quello che era succeduto durante la vostra assenza».

      «Ed hai fatto bene» disse Yanez. «Ora puoi partire, e se sei capace di ricondurci almeno Sahur la tua fortuna sarà fatta. Noi ti aspettiamo dinanzi alla pagoda».

      «Vedrete, mio signore, che il mio elefante al mio primo richiamo scapperà e verrà a me».

      Yanez gli fece dare un paio di pistole, non avendo egli altre armi che l’arpione del mestiere, poi gli fece cenno di partire. Il cornac parve che si orientasse rapidamente, poi si allontanò a corsa sfrenata. Non aveva detto una vanteria affermando di correre come un cavallo.

      Yanez e Tremal-Naik erano rimasti silenziosi, guardandosi l’un l’altro, mentre gli sikkari, dopo aver legato le braccia ai due prigionieri, eseguivano una rapida battuta per accertarsi se tutti i rajaputi si erano veramente allontanati.

      «Ci capisci tu qualche cosa?» disse finalmente il portoghese, tergendosi il copioso sudore che gli bagnava la fronte. «Ho capito che ci hanno portati via duecento uomini» rispose Tremal-Naik.

      «Corpo di Giove!… Lo so anch’io, ma io vorrei ora sapere perché quei traditori non si sono slanciati su di noi per farci prigionieri e consegnarci al rajah».

      «Non l’avranno osato. Tu sei ancora il maharajah dell’Assam, mentre il pazzo ora rinsavito non è ancora nulla. Potrà forse un giorno riconquistare la corona che tu gli hai tolta, ma finora non è che uno spodestato».

      «Che abbiano avuto paura di noi? Duecento contro otto, poiché i due prigionieri non ci avrebbero certamente aiutati».

      «In fondo i rajaputi sono cavallereschi, tu già lo sai. Avranno accettato di arruolarsi e avranno invece rifiutato di spingere il tradimento fino ad impadronirsi delle nostre persone».

      «Di ciò non serberò loro nessuna riconoscenza» disse Yanez, che appariva furioso. «Io non mi aspettavo un colpo così grosso. Mi hanno dato una coltellata in mezzo al cuore privandomi dei miei venti elefanti per venderli a Sindhia. Ladri!… Ladri!…»

      «Càlmati, amico, la partita fra te ed il rajah non è, si può dire, ancora impegnata, ed i montanari di Sadhja non mancano di buoni elefanti e bene montati».

      «Ed