Emilio Salgari

La caduta di un impero


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e da Tremal-Naik. Stava per riprendere lo slancio, quando le due carabine tuonarono con gran fracasso.

      «Fulminata» disse il capo degli sikkari. «Come avete veduto, mio signore, non mi ero ingannato. Si tratta d’una pantera in cerca di cena».

      «Ora che la via è aperta corriamo alla pagoda» disse Yanez. «Speriamo di non fare altri cattivi incontri».

      Saltarono sul corpo della belva, una magnifica bestia grossa quasi quanto una tigre, col mantello graziosamente picchiettato, e si slanciarono sul sentiero, correndo a perdifiato.

      Ormai non prendevano più nessuna precauzione. Con quei due colpi di carabina si erano traditi, quindi non valeva la pena di ritardare la marcia, tanto più che ormai sapevano d’avere i paria alle spalle. Con un ultimo slancio giunsero dinanzi alla porta maggiore della pagoda, si aggrapparono alle corde che non avevano ritirate, e si misero in salvo sulle teste dei due elefanti, dinanzi al gran finestrone.

      «Non credevo di aver tanta fortuna» disse Yanez, ricaricando subito l’arma. «Si direbbe che tutti gli dèi dell’India si sono messi d’accordo per proteggerci».

      «Non siamo ancora a casa nostra» disse Tremal-Naik. «Sai tu che cosa può succedere ora?»

      «Prevedo un attacco da parte dei paria, ma di quei furfanti io non ho mai avuto paura. Se Sindhia fosse andato ad arruolare i suoi guerrieri fra i nizami, i ragiapatani od i maharatti, la cosa sarebbe ben diversa. Anche l’India, malgrado il suo clima deprimente, ha delle valorose razze nate per la guerra. Ha preferito i paria, i senza patria e senza casta. Ebbene, vengano ad assalirmi».

      «E se si presentassero in cento, armati colle carabine dei rajaputi?» chiese Tremal-Naik. «Scenderemo nella pagoda e vi rimarremo finché tornerà il cornac di Sahur». «Per farci assediare?»

      «Noi siamo uomini da fare delle sortite terribili. Vi sono delle porte qui, qualcuna spero che almeno dall’interno si aprirà, ed allora ci lanceremo sui paria coll’impeto delle Tigri di Mòmpracem. Tu già conosci le nostre cariche». «Sì, le cariche dei pazzi» rispose il famoso cacciatore, sorridendo. «Che hanno però sempre sgomentato il nemico».

      «Non dico di no. Si tratta di sapere se quelle porte si aprono. Io voglio andare a vedere». «Solo? Sei pazzo?»

      «Prenderò con me il capo degli sikkari. Fa’ gettare una corda dentro la pagoda e tu non lasciare questo posto. Dobbiamo aspettare il cornac».

      «Lo so, e so pure che senza un buon elefante noi non riusciremo a raggiungere la capitale. Quei bestioni sentono gli agguati, e quando sono aizzati lavorano di proboscide». «Lasciami andare: i paria non mi mangeranno». «Bada, Tremal-Naik».

      «Un uomo che ha lottato per tanti anni contro i thugs della Jungla Nera, non può aver paura dei paria. Se morrò, tu mi vendicherai». «Questo te lo prometto».

      Il famoso cacciatore staccò una corda e la lasciò cadere dentro il tempio tenebroso e pieno probabilmente d’insidie. «Non hai paura tu a seguirmi?» aveva chiesto al capo degli sikkari.

      «No, sahib, ed aspettavo che tu mi chiedessi di accompagnarti. Io non sono un rajaputo, perché sono del Nizam, un paese che non produce traditori».

      Tremal-Naik si assicurò prima di avere una candela, e stava per accenderla, quando tornò verso Yanez. «Un’idea» disse. «Parla».

      «Giacché gli sikkari hanno confezionata una specie di bomba, non si potrebbe farla esplodere contro la porta maggiore della pagoda?»

      «Ora non ci tengo affatto che ci sia un’apertura, sia per noi come per gli altri» rispose il portoghese. «È meglio, per ora, che le porte rimangano chiuse».

      «Infatti, tu hai ragione» rispose Tremal-Naik. «Colle porte chiuse noi potremo sostenere anche un assedio. Lascia che vada a vedere».

      «Buona fortuna» disse Yanez. «Abbiamo altre quattro corde e faremo presto a raggiungerti».

      L’audace cacciatore, seguito subito dal capo degli sikkari, si fermò un momento sul largo davanzale del finestrone, e lanciò poscia l’arpione. Il ferro, battendo sulle pietre, diede un lunghissimo suono metallico che produsse un certo effetto nella vastità immensa della pagoda. Non essendo stata scagliata nessuna freccia, i due valorosi si aggrapparono alla corda, e l’uno, a pochi passi sopra l’altro, cominciarono la discesa. Avevano entrambi muscoli solidi e largo fegato, e non erano uomini da impressionarsi anche se si fossero trovati improvvisamente dinanzi a parecchi assalitori.

      «Cento piedi» contò Tremal-Naik. «È ben alta questa pagoda. Ve ne devono essere poche in tutta l’India che abbiano simili dimensioni».

      «Eppure non siamo a Benares, città famosa per la grandiosità dei suoi templi» rispose il capo degli sikkari, mettendo piede a terra pel primo. «Hai anche tu una candela?» «Sì, sahib». «Accendila e andiamo a visitare queste porte».

      Stavano per strofinare gli zolfanelli, quando udirono echeggiare improvvisamente un suono non facile a definirsi.

      «Qui vi è qualcuno che ci spia» disse Tremal-Naik. «Che abbia aperta qualche porta?»

      «A me parve un colpo dato a qualche statua con un pezzo di ferro» rispose il capo degli sikkari, accendendo rapidamente la candela.

      Si guardarono intorno ma non videro altro che delle statue di dimensioni gigantesche che rappresentavano tutte le incarnazioni di Visnù.

      «Eppure noi abbiamo udito bene e non siamo sordi» disse Tremal-Naik, il quale aveva pure accesa la sua candela. «Qui ci doveva essere qualcuno poco fa. Dove si sarà cacciato?» «E sarà solo, sahib?» «Questo si saprà più tardi». «Speri, sahib, che i congiurati si mostrino?» «Verranno almeno a domandarci che cosa desideriamo». «E noi che cosa risponderemo?»

      «Intimeremo loro senz’altro la resa della pagoda, se non vorranno provare le nostre grosse carabine. Vedo aprirsi là in fondo dei vasti corridoi. Andiamo a visitarli». «Sii prudente, sahib».

      Attraversarono lentamente la gran pagoda, guardandosi intorno per evitare qualche brutta sorpresa, e giunsero dinanzi a una galleria la quale forse metteva agli alloggi dei sacerdoti.

      Stavano per salire la gradinata, quando udirono un leggero sibilo seguito subito da un colpo secco. Pareva che qualche freccia si fosse spezzata presso di loro.

      «Alto!…» aveva comandato prontamente Tremal-Naik. «Non amo provare il veleno dei bis cobra».

      «Hanno lanciata una freccia addosso a noi, e per un caso miracoloso siamo sfuggiti ad una morte orribile. Sahib, non andare più innanzi».

      «Veramente ci penso poco» rispose il famoso cacciatore. «Contro le armi da fuoco ci tengo e ci sto, ma i veleni non ho alcuna voglia di provarli così presto. Come mai questi paria si sono armati di cerbottane, armi non troppo usate qui? Eppure hanno, a quest’ora, le carabine dei rajaputi».

      Udendo in alto un altro sibilo che annunciava un secondo messaggero di morte, Tremal-Naik scese a precipizio i gradini, seguito dal capo degli sikkari, e andò a rifugiarsi dietro ad una statua che rappresentava una divinità indiana. Là giunto e assicuratosi di non aver nemici alle spalle, puntò la carabina verso la galleria, lasciando partire il colpo. Tosto grida altissime si alzarono, che però si spensero bruscamente.

      «Che abbia storpiato qualcuno di quei briganti?» si chiese Tremal-Naik. «La carabina era carica a mitraglia, e di quella grossa anche». In quel momento si udì Yanez domandare dall’alto del finestrone: «Hai sfondata una porta?» «No, amico». «Stando quassù pareva che fosse rovinato qualche cosa di grosso». «Non ho sparato che un colpo». «Ci sono?»

      «Sì, e devono essere anche in molti, e quello che è peggio, armati di cerbottane». «Hai trovata nessuna porta?»

      «No, Yanez. Non oso andare innanzi e fare conoscenza colle frecce tinte nella bava del bis cobra». «Ti credo e dovresti…» «Che cosa fare?…»

      La risposta fu soffocata da una scarica di carabine. Gli sikkari, ben nascosti dietro le trombe di pietra degli elefanti, avevano aperto il fuoco.

      «Altro che cercare le porte!…» esclamò Tremal-Naik,