Emilio Salgari

La rivicità di Yanez


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avverto che se vedrai questo sahib spezzare un paio di bottiglie farai finta di non vedere, e ti do il consiglio di scappare subito colla velocità d’un nilgò.

      – Io sarò cieco, Altezza.

      – Hai una scorta che ti aspetta fuori? – gli chiese Sandokan.

      – Sí, sono giunto con una ventina di rajaputi. Si sono fermati presso la moschea per ricondurmi al campo.

      – Signor Wan Horn, se non avete paura dei vostri microbi, potete seguire quest’uomo. Ci direte piú tardi in quali condizioni di salute si trova quel caro Sindhia.

      – Io non ho paura – rispose l’olandese colla sua voce sempre pacata. – Sarò un parlamentario meraviglioso. Lo sono stato ancora, per conto del mio governo, presso i dayaki laut.

      – E non vi hanno mangiato? – chiese Yanez ridendo.

      – No, perché allora ero molto magro e non potevo fornire a quei cannibali che delle bistecche assai spolpate.

      Tese la mano a Sandokan, a Yanez, a Tremal-Naik, si abbottonò l’ampia giacca nelle cui tasche interne nascondeva le famose bottiglie e seguí il bramino il quale si era impadronito d’una torcia.

      – Speriamo di rivedervi presto – gli gridò dietro il portoghese. – Nessuno oserà passarmi per le armi – rispose il dottore.

      E se ne andò tranquillo, mentre i pirati della Malesia, sempre sospettosi, puntavano le mitragliatrici verso la vecchia moschea.

      CAPITOLO III. I BACILLI DEL COLERA

      Un chiarore latteo cominciava a diffondersi verso oriente; il pianeta Venere, in quel cielo terso come un cristallo, splendeva superbamente.

      Ma tutta la campagna, che si estendeva intorno alla distrutta capitale, interrotta da folti gruppi di banani e di tamarindi che il grande calore aveva ingialliti e forse spenti per sempre, era ancora bruna poiché l’alba non si era ancora mostrata pienamente.

      Un grosso drappello, formato d’una ventina di rajaputi armati di fucili e di pistoloni, si avanzava attraverso la pianura preceduto da un uomo bianco e da un bramino, il quale sulla punta d’una lancia reggeva una bandiera di seta piú o meno bianca.

      In lontananza luccicavano dei grandi falò i quali annunciavano un accampamento imponente. Si udivano giungere grida umane e barriti d’elefanti.

      I due uomini che pareva guidassero il drappello erano il flemmatico olandese e Kiltar.

      Il primo aveva accesa una grossa pipa di porcellana, come usano tutti gli uomini del nord dell’Europa, e fumava con una flemma sorprendente; il secondo invece masticava qualche cosa, forse del betel con noce d’areka e calce viva, a giudicare dai lunghi sputi color del sangue che di quando in quando proiettava dinanzi a sé con una specie di sibilo.

      Il drappello, dopo d’aver fiancheggiato i bastioni della capitale, sventrati dallo scoppio delle polveriere le quali, malgrado le porte di ferro, non avevano potuto resistere all’uragano di fuoco che distruggeva ogni cosa, si cacciò su un largo sentiero aperto fra le altissime erbe chiamate kâlam.

      Dinanzi, le luci dell’accampamento brillavano sempre, mentre il cielo si rischiarava rapidamente.

      – Sarà alzato il rajah? – chiese l’olandese.

      – Non dorme quasi mai di notte – rispose il bramino.

      – Che cosa fa?

      – Si ubriaca, tanto per non perdere l’abitudine, insieme coi capi dell’esercito.

      – Capi di gran valore, è vero?

      – Per me sono dei grandi vuotatori di bottiglie. Di guerra devono intendersene meno dei paria.

      – Come credi che mi accoglierà?

      – Tu sei un uomo bianco, sahib, e Sindhia ha troppa paura degli uomini che non hanno la pelle abbronzata come noi.

      – Purché non mi faccia schiacciare la testa sotto la zampa di qualche elefante!

      – Non l’oserà, te lo dico io, sahib.

      – Allora sono tranquillo.

      – Tu non hai nessuna arma, sahib bianco.

      – Lo credi? Ho con me solamente due bottiglie.

      – Da offrire al rajah?

      – Oh, no!… Da spezzare una volta entrato nel campo, e ti posso assicurare che valgono meglio di tutti i cannoni e di tutte le carabine che possiede il principe.

      Il bramino scosse il capo, poi mormorò:

      – Ah, questi bianchi, questi bianchi!…

      – Voglio darti un consiglio – disse l’olandese.

      – Quale, sahib?

      – Di fuggire appena io avrò spezzate casualmente le due bottiglie.

      – Contengono delle materie esplodenti?

      – Peggio! È un mio segreto e non posso rivelartelo per ora, quantunque io abbia in te completa fiducia.

      – Ho detto al Maharajah che il mio corpo ed anche la mia anima, se la desidera, sono cose sue.

      – Infatti io l’ho udito – rispose l’olandese, rimettendosi la pipa in bocca. – Ba’, vedremo!… Oh!, saprei vendicarmi terribilmente.

      Erano giunti all’accampamento il quale si estendeva intorno a delle immense risaie.

      Gli indiani, che non usano tende, avevano innalzato una grande quantità di capannucce coperte di foglie di tara e di banani.

      Da tutte quelle minuscole abitazioni uscivano, a quattro a cinque per volta paria semi-nudi e assai sporchi, fakiri magri come chiodi, banditi dagli sguardi torvi che nelle fasce portavano un vero arsenale, poi dei rajaputi e molti cornac incaricati di vegliare sugli elefanti presi cosí abilmente a Yanez.

      Nel mezzo di tutte quelle capannucce si alzava orgogliosamente una tenda tutta rossa, la sola, in forma d’un immenso cono, sulla cui cima ondeggiava una bandiera azzurra con un leopardo dipinto a forti tinte, e che pareva fosse lí lí per spiccare lo slancio: era lo stemma dei Maharajah dell’Assam.

      Vedendo avanzarsi il drappello dei soldati, fecero squillare rumorosamente i gong per dare l’allarme, poi i falò furono rapidamente spenti, ed un centinaio di uomini mosse contro Kiltar, il quale faceva ondeggiare vivamente la bandiera bianca gridando:

      – Largo!… Largo al sahib bianco!…

      Le schiere che si erano subito ingrossate dietro al primo drappello, avendo riconosciuto il bramino, si erano affrettate ad aprire le loro file.

      Wan Horn vuotò la pipa, si pulí gli occhiali montati in oro e assicurati da una leggera catenella del medesimo metallo, poi si mise a fianco del sacerdote, guardando piuttosto insolentemente i banditi dell’ex rajah.

      Ormai il sole era sorto, e la vasta tenda di seta rossa si era aperta sul dinanzi.

      Quattro rajaputi, che avevano dei giganteschi turbanti e delle barbe nerissime che coprivano loro quasi tutto il viso, vegliavano, due per parte, appoggiati alle carabine le quali avevano i cani alzati.

      Il bramino fece segno all’olandese di fermarsi, poi entrò nella tenda salutato rispettosamente dalle sentinelle.

      Wan Horn, immaginandosi che la conferenza sarebbe stata un po’ lunga, si sedette su un grosso tronco d’albero atterrato per alimentare i fuochi notturni e ricaricò, colla sua eterna flemma, la pipa borbottando:

      – Mi si farà fare un po’ d’anticamera.

      Attorno a lui, a una certa distanza, si erano radunati parecchie centinaia di soldati che avevano piú l’aspetto di straccioni che di guerrieri, ma tutti benissimo armati di fucili, di pistole e anche di scimitarre.

      – Bell’esercito – borbottò l’olandese, dopo la terza aspirazione che lo avvolse in una nuvola di fumo profumato. – Dove quell’ex rajah ha raccolto questi banditi?