fiato, poi ricominciava a sparare su quella massa di disgraziati, che invano supplicavano di risparmiarli.
I colpi si succedevano ai colpi, perché quel maniaco furioso si era fatto portare sulla terrazza parecchie carabine che i suoi ufficiali si affrettavano a ricaricare e a porgergli. Ora cadeva un uomo colla testa fracassata, ora una donna col petto attraversato da una palla, ora invece, un fanciullo o una fanciulla, poiché il rajah non risparmiava nessuno.
Cosí vidi cadere successivamente mio padre, a cui un proiettile aveva fracassato la colonna vertebrale, poi mia madre colpita in mezzo alla fronte, poi i miei due fratelli, poi molti altri ancora. Trentasette erano i parenti del mostro e dieci minuti dopo trentasei giacevano sparsi per il cortile fra un vero lago di sangue.
Solo era sfuggito uno dei fratelli del principe, quantunque fosse stato fatto segno a tre colpi di carabina. Quel disgraziato, che balzava come una giovane tigre per impedire al fratello di prenderlo di mira, gridava disperatamente:
«Fammi grazia della vita ed io abbandono il tuo stato. Sono figlio di tuo padre! Tu non hai il diritto di uccidermi!»
Il rajah, sordo a quelle grida disperate, gli sparò ancora contro due colpi senza riuscire a coglierlo, poi preso forse da un subitaneo pentimento, abbassò la carabina che un ufficiale gli aveva sporta, gridando al fuggiasco:
«Se è vero che tu abbandonerai per sempre i miei stati, ti fo grazia della vita a una condizione».
«Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai», rispose il giovane principe.
«Io getterò in aria una rupia; se tu la colpirai colla palla di questa carabina, ti lascerò partire pel Bengala senza farti alcun male.»
«Accetto», rispose il giovane.
Il rajah gli gettò la carabina che il fratello prese al volo.
«Ti avverto», gli urlò il pazzo, «che se manchi la moneta subirai la medesima sorte degli altri.»
«Gettala!»
Il rajah fece volare in aria una rupia. S’udí uno sparo, e non fu bucata la moneta, bensí il petto dell’assassino.
Sindhia, tale era il nome del giovane principe, invece di far fuoco sulla moneta aveva voltata rapidamente l’arma contro il pazzo e l’aveva fulminato spaccandogli il cuore.
I ministri e gli ufficiali si prosternarono dinanzi al giovane che aveva liberato lo stato da quel mostro e senz’altro lo acclamarono rajah.
Quando seppe che anch’io ero sfuggita alla morte, quell’uomo che doveva avere l’animo non meno perverso del fratello, invece di farmi ricondurre fra le tribú devote a mio padre, mi fece segretamente vendere a dei Thugs che percorrevano il paese per procurarsi delle bajadere e s’impadroní, senza vergogna, di tutti i miei beni.
Fui condotta nei sotterranei di Rajmangal dove compii la mia educazione di bajadera, poi assegnata alla pagoda di Kalí e di Darma-Ragia.
Ecco la mia storia, sahib bianco. So che ero nata presso i gradini d’un trono, ora non sono che una miserabile danzatrice.
– Che dramma terribile! – disse una voce.
Yanez e Surama si volsero. Sandokan e Tremal-Naik erano entrati silenziosamente nella cabina, e da qualche minuto ascoltavano la giovane danzatrice.
– Povera fanciulla! – disse Sandokan, avvicinandosi a lei. – Non eri certo nata sotto una buona stella, ma noi penseremo al tuo avvenire. La Tigre della Malesia non abbandona gli amici.
– Voi siete buoni, – rispose Surama, la cui voce ancora tremava.
– Tu non tornerai mai piú fra i Thugs, né sarai piú una danzatrice. Ormai sei sotto la nostra protezione.
Poi cambiando bruscamente tono:
– Che tu sappia, fanciulla, i Thugs posseggono delle navi?
– Non lo so, sahib – rispose la fanciulla. – Ho veduto, quand’ero a Rajmangal, delle scialuppe navigare sui canali delle Sunderbunds, ma navi mai.
– Perché questa domanda, Sandokan? – chiese Yanez.
– Sono giunte or ora due grab e si sono ancorate presso di noi.
– Che cosa vi trovi di straordinario?
– Quelle due navi sono montate da equipaggi troppo numerosi e mi hanno un’aria sospetta.
– Ed a me hanno fatto la stessa impressione, – disse Tremal-Naik. – Quei miriam che portano a poppa non li ho mai veduti né a bordo delle grab, né delle pariah.
– Le terremo d’occhio, – rispose Yanez. – Potreste però anche ingannarvi. Sono cariche?
– No, – disse Sandokan.
– Ammettendo anche che possano appartenere ai Thugs, nulla potrebbero tentare contro di noi, almeno finché siamo sotto le artiglierie del forte William.
Accontentiamoci di sorvegliarle e occupiamoci della nostra spedizione. Surama può camminare e condurci alla vecchia pagoda. È vero, fanciulla?
– Sí, sahib: io posso condurvi.
– Dovremo risalire il fiume per molte ore? – chiese Sandokan.
– La pagoda si trova a sette o a otto miglia dagli ultimi sobborghi della città nera.
– Sono già le sei; possiamo partire per sceglierci il posto prima che giungano i Thugs. Le due scialuppe sono pronte e i fucili nascosti sotto i banchi. Andiamo.
Porse a Surama un largo mantello di seta oscura fornito di cappuccio e salirono tutti in coperta.
Le due scialuppe erano già state calate e ventiquattro uomini, scelti fra i malesi e i dayachi, avevano occupato i banchi.
– Le vedi? – chiese Sandokan a Yanez, indicandogli le due grab che avevano gettato le ancore a pochi passi dal praho, una a babordo e l’altra a tribordo.
Il portoghese le guardò di sfuggita. Erano due solidi velieri, un po’ meno grossi della Marianna, colla prora a punta, tre alberi altissimi, la poppa assai elevata e che portavano grandi vele latine, che non erano state ancora calate sul ponte.
I marinai, tutti indiani, che in quel momento erano occupati ad allontanare le catene per meglio assicurare l’ancoraggio, erano infatti troppo numerosi per velieri cosí piccoli e cosí maneggiabili.
– Può darsi che abbiano qualche cosa di sospetto quelle navi, – disse Yanez. – Ma per ora non occupiamoci di loro, né preoccupiamoci.
Scesero nella scialuppa maggiore e presero rapidamente il largo, seguiti dall’altra che era guidata da Tremal-Naik e da Sambigliong.
Passarono rapidi come frecce attraverso ai navigli, poi dinanzi alla città bianca, quindi alla nera e continuarono la loro corsa verso il settentrione, seguendo i serpeggiamenti del sacro fiume.
Due ore dopo, Surama additava a Yanez ed a Sandokan una specie di piramide tronca che s’alzava sulla riva destra, in mezzo a un boschetto di cocchi il quale confinava con una jungla formata di bambú giganteschi.
Si trovavano in un luogo assolutamente deserto, non essendovi sulle due rive né capanne e nemmeno barche ancorate.
Solamente alcune dozzine di marabú passeggiavano gravemente fra i paletuvieri, borbottando e aprendo di quando in quando i loro becchi mostruosi in forma d’imbuto.
Dopo essersi ben assicurati che non vi fosse nessuno, i ventiquattro pirati ed i loro capi presero terra, levando le carabine che fino ad allora avevano tenute celate.
– Nascondete le scialuppe sotto i paletuvieri, – disse Sandokan, – e che quattro uomini rimangano qui di guardia. Avanti gli altri.
– Surama, – disse Yanez, – vuoi che ti faccia portare dai nostri uomini?
– Non ne ho bisogno, sahib bianco, – rispose la giovane.
– Quando deve aver luogo l’oni-gomon?
– Verso la mezzanotte.
– Abbiamo