Emilio Salgari

Le tigri di Monpracem


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si mise a osservare minutamente la stanza; era vasta, elegante, illuminata da due grandi finestre attraverso i cui vetri si vedevano degli alberi altissimi. In un canto vide un pianoforte, sul quale stavano sparpagliate delle carte di musica; in un altro un cavalletto con un quadro raffigurante una marina; nel mezzo un tavolo di mogano con sopra un lavoro di ricamo fatto senza dubbio dalle mani di una donna e presso il letto un ricco sgabello ad intarsi di ebano e di avorio, sul quale Sandokan vide, non senza una viva compiacenza, il fedele suo kriss e presso questo un libro semiaperto, con un fiore appassito fra le pagine. Tese gli orecchi, ma non udì alcuna voce; però in distanza udivansi dei suoni delicati che parevano gli accordi di una mandola o di una chitarra.

      – Ma dove sono io? – si chiese per la seconda volta. – In casa di amici o di nemici? E chi mai ha fasciata e curata la mia ferita?

      Ad un tratto i suoi occhi si fermarono nuovamente sul libro che stava sullo sgabello e, spinto da una irresistibile curiosità, allungò una mano e lo prese. Sulla copertina vi era un nome impresso a lettere d’oro.

      – Marianna! – lesse egli. – Cosa vuol dire ciò? È un nome o una parola che io non comprendo?

      Tornò a leggere e, cosa strana, si sentì agitato da una sensazione ignota. Qualche cosa di dolce colpì il cuore di quell’uomo, quel cuore che era di acciaio e che restava chiuso alle più tremende emozioni.

      Aprì il libro: era coperto d’un carattere leggero, elegante e nitido, ma non riuscì a comprendere quelle parole, quantunque alcune somigliassero alla lingua del portoghese Yanez. Senza volerlo, ma spinto da una forza misteriosa, prese delicatamente quel fiore che poco prima aveva veduto e lo mirò a lungo. Lo fiutò più volte procurando di non guastarlo con quelle dita che altro non avevano stretta che l’impugnatura della scimitarra, provando per la seconda volta una strana sensazione, un misterioso tremito, un non so che nel cuore; poi quell’uomo sanguinario, quell’uomo di guerra, si sentì vincere da un vivo desiderio di portarlo alle labbra!…

      Lo ripose quasi con dispiacere fra le pagine, chiuse il libro e lo ricollocò sullo sgabello. Era tempo: la maniglia della porta girò ed un uomo si fece innanzi, camminando lentamente e con quella rigidezza che è particolare agli uomini di razza anglosassone.

      Era un europeo, a giudicarlo dalla tinta della pelle, di statura piuttosto alta e ben complessa. Dimostrava circa cinquanta anni, aveva il viso incorniciato da una barba rossiccia, ma che cominciava ad incanutire, due occhi azzurri, profondi, e nell’insieme si comprendeva un uomo abituato a comandare.

      – Godo di vedervi tranquillo; erano tre giorni che il delirio non vi lasciava un solo momento di quiete.

      – Tre giorni! – esclamò Sandokan, stupito. – Tre giorni che io sono qui?… Ma non sogno io adunque?

      – No, non sognate. Siete presso buone persone che vi cureranno affettuosamente e che faranno il possibile per guarirvi.

      – Ma chi siete voi?

      – Lord James Guillonk, capitano di vascello di Sua Maestà la graziosa imperatrice Vittoria.

      Sandokan fece un soprassalto e la sua fronte si offuscò, però si rimise prontamente e, facendo uno sforzo supremo per non tradire l’odio che portava contro tutto ciò che era inglese, disse:

      – Vi ringrazio, milord, di tutto quello che avete fatto per me, per uno sconosciuto, che poteva essere un vostro mortale nemico.

      – Era mio dovere di accogliere in casa mia un povero uomo, ferito forse mortalmente – rispose il lord. – Come state ora?

      – Mi sento abbastanza gagliardo e non provo più dolori.

      – Ho molto piacere, ma ditemi, se non vi rincresce, chi vi ha conciato in quel modo? Oltre la palla che vi estrassi dal petto, il vostro corpo era coperto di ferite prodotte da armi bianche.

      Sandokan, quantunque si aspettasse questa domanda, non potè fare a meno di trasalire fortemente. Tuttavia non si tradì, né si perdette d’animo.

      – Se dovessi proprio dirlo, non lo saprei – rispose. – Ho visto degli uomini piombare di notte, sui miei legni, montare all’abbordaggio e massacrarmi i marinai. Chi erano? Io non lo so, poiché fin dal primo urto caddi in mare coperto di ferite.

      – Voi siete stato, senza dubbio, assalito dai tigrotti della Tigre della Malesia – disse lord James.

      – Dai pirati?… – esclamò Sandokan.

      – Sì, da quelli di Mompracem, che tre giorni fa scorrazzavano i dintorni dell’isola, ma che furono poi distrutti da uno dei nostri incrociatori. Ditemi, dove siete stato assalito?

      – Nei pressi delle Romades.

      – Giungeste alle nostre coste a nuoto?

      – Sì, aggrappato ad un rottame. Ma voi dove mi avete trovato?

      – Sdraiato tra le erbe, in preda ad un tremendo delirio. E voi dove eravate diretto, quando veniste assalito?

      – Andavo a portare dei regali al sultano di Varauni, da parte di mio fratello.

      – Ma chi è vostro fratello?

      – Il sultano di Shaja.

      – Voi adunque siete un principe malese! – esclamò il lord, stendendogli la mano che Sandokan, dopo una breve esitazione, strinse quasi con ribrezzo.

      – Sì, milord.

      – Son ben lieto di avervi ospitato e farò il possibile per non farvi annoiare, quando sarete guarito. Anzi se non vi spiacerà, andremo a trovare insieme il sultano di Varauni.

      – Sì e…

      Egli si arrestò sporgendo innanzi il capo, come se cercasse di raccogliere qualche lontano rumore.

      Dal di fuori venivano gli accordi di una mandola, forse gli stessi suoni che aveva udito poco prima.

      – Milord! – esclamò, in preda ad una viva eccitazione di cui invano cercava di spiegare la causa. – Chi è che suona?

      – Perché, mio caro principe? – chiese l’inglese, sorridendo.

      – Non lo so… ma avrei un vivo desiderio di vedere la persona che così suona… Si direbbe che questa musica mi tocca il cuore… e che mi fa provare una sensazione che mi è nuova ed inesplicabile.

      – Aspettate un istante. – Gli fece segno di ricoricarsi e uscì. Sandokan ricadde sul guanciale, ma quasi subito si rialzò come se fosse stato spinto da una molla. La inesplicabile commozione che lo aveva colpito poco prima, ritornava a prenderlo con maggior violenza. Il cuore gli batteva in maniera tale che pareva volesse uscirgli dal petto; il sangue gli scorreva furiosamente per le vene e le membra provavano degli strani fremiti.

      – Ma cosa provo io? – si chiese egli. – È forse il delirio che mi assale ancora?

      Aveva appena pronunciate quelle parole che il lord rientrava, ma non era solo.

      Dietro di lui si avanzava, sfiorando appena il tappeto, una splendida creatura, alla cui vista Sandokan non potè trattenere una esclamazione di sorpresa e di ammirazione.

      Era una fanciulla di sedici o diciassette anni, dalla taglia piccola, ma snella ed elegante, dalle forme superbamente modellate, dalla cintura così stretta che una sola mano sarebbe bastata per circondarla, dalla pelle rosea e fresca come un fiore appena sbocciato.

      Aveva una testolina ammirabile, con due occhi azzurri come l’acqua del mare, una fronte d’incomparabile precisione, sotto la quale spiccavano due sopracciglia leggiadramente arcuate e che quasi si toccavano. Una capigliatura bionda le scendeva in pittoresco disordine, come una pioggia d’oro, sul bianco busticino che le copriva il seno.

      Il pirata, nel vedere quella donna che sembrava una vera bambina, malgrado la sua età, si era sentito scuotere fino in fondo all’anima. Quell’uomo così fiero, così sanguinario, che portava quel terribile nome di Tigre della Malesia, per la prima volta in vita sua si sentiva affascinato dinanzi a quella gentile creatura, dinanzi a quel leggiadro fiore sorto sotto i boschi di Labuan. Il suo cuore che poco prima