Emilio Salgari

Le tigri di Monpracem


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i due equipaggi, con terribile entusiasmo. – All’abbordaggio! All’abbordaggio!

      Un istante dopo i due legni scendevano il fiumicello e tre minuti più tardi uscivano in pieno mare.

      A seicento metri dalla costa, un grande vascello, della portata di oltre millecinquecento tonnellate e potentemente armato, navigava a piccolo vapore chiudendo la via dell’ovest.

      Sul suo ponte si udivano rullare i tamburi che chiamavano gli uomini ai posti di combattimento e si udivano i comandi degli ufficiali. Sandokan guardò freddamente quel formidabile avversario e, anziché spaventarsi della sua mole, delle sue numerose artiglierie e del suo equipaggio tre e forse quattro volte più numeroso, tuonò:

      – Tigrotti, ai remi!

      I pirati si precipitarono sotto il ponte mettendo mano ai remi, mentre gli artiglieri puntavano i cannoni e le spingarde.

      – Ora a noi due, vascello maledetto – disse Sandokan, quando vide i prahos filare come frecce sotto la spinta dei remi.

      Subito un getto di fuoco balenò sul ponte dell’incrociatore e una palla di grosso calibro fischiò fra gli alberi del praho.

      – Patan! – gridò Sandokan. – Al tuo cannone!

      Il malese, che era uno dei migliori cannonieri che vantasse la pirateria, diede fuoco al suo pezzo. Il proiettile, che si allontanava fischiando, andò a schiantare l’asta della bandiera.

      Il legno da guerra, invece di rispondere, virò di bordo presentando i sabordi di babordo, dai quali uscivano le estremità di una mezza dozzina di cannoni.

      – Patan non perdere un solo colpo – disse Sandokan, mentre una cannonata rimbombava sul praho di Giro-Batol. – Fracassa gli alberi a quel maledetto, schiantagli le ruote, smontagli i pezzi e quando non avrai più occhio sicuro, fatti uccidere.

      In quell’istante l’incrociatore parve incendiarsi. Un uragano di ferro attraversò l’aria e colpì in pieno i due prahos rasandoli come pontoni. Urla spaventevoli di rabbia e di dolore si alzarono fra i pirati, soffocate da una seconda bordata che mandò sottosopra remiganti, artiglierie ed artiglieri. Ciò fatto il legno da guerra, avvolto fra turbini di fumo nero e bianco, virò di bordo a meno di quattrocento passi dai prahos e si portò un chilometro più lontano, pronto a ricominciare il fuoco. Sandokan, rimasto illeso, ma atterrato da un pennone, si era tosto rialzato.

      – Miserabile! – tuonò egli, mostrando le pugna al nemico. – Vile, tu fuggi, ma ti raggiungerò!

      Con un fischio chiamò i suoi uomini in coperta.

      – Presto, gettate una barricata dinanzi ai cannoni e poi avanti!

      In un baleno, a prua dei due legni furono accumulati alberi di ricambio, botti piene di palle, vecchi cannoni smontati, e rottami d’ogni sorta, formando una solida barricata. Venti uomini, i più robusti, ridiscesero per manovrare i remi, ma gli altri si affollarono dietro alle barricate colle mani raggrinzate attorno alle carabine e i denti stretti sui pugnali che scintillavano fra le frementi labbra.

      – Avanti! – comandò la Tigre.

      L’incrociatore aveva arrestato la sua marcia retrograda e ora si avanzava a piccolo vapore, vomitando torrenti di fumo nero.

      – Fuoco a volontà – gridò la Tigre.

      Da ambe le parti si riprese la musica infernale, rispondendo colpo per colpo, palla per palla, mitraglia contro mitraglia.

      I tre legni, decisi a soccombere, ma non a retrocedere, non si scorgevano quasi più, avvolti come erano da immense nuvole di fumo che una calma ostinata manteneva sopra i ponti, ma ruggivano con egual furore e i lampi si succedevano ai lampi e le detonazioni alle detonazioni.

      Il vascello aveva il vantaggio della sua mole e delle sue artiglierie, ma i due prahos, che la valorosa Tigre conduceva all’abbordaggio, non cedevano. Rasi come pontoni, forati in cento luoghi, sdrusciti, irriconoscibili, già coll’acqua nella stiva, già pieni di morti e di feriti, continuavano a tirare innanzi, malgrado il continuo tempestare di palle.

      Il delirio si era impadronito di quegli uomini e tutti altro non chiedevano che di salire sul ponte di quel formidabile vascello e, se non di vincere, almeno di morire sul campo del nemico.

      Patan, fedele alla parola data, si era fatto uccidere dietro al suo cannone, ma un altro abile artigliere aveva preso il suo posto; altri uomini erano caduti e altri ancora, orrendamente feriti, colle braccia o colle gambe mozzate, si dibattevano disperatamente fra torrenti di sangue.

      Un cannone era stato smontato sul praho di Giro-Batol e una spingarda non tirava quasi più, ma che importava?

      Sul ponte dei due legni restavano altre tigri assetate di sangue, che facevano valorosamente il loro dovere.

      Il ferro fischiava sopra quei prodi, staccava braccia e sfondava petti, rigava i ponti, schiantava le murate, frantumava ogni cosa, ma nessuno parlava di retrocedere, anzi insultavano il nemico e lo sfidavano ancora e, quando un colpo di vento sbarazzava quei poveri legni dai nuvoloni che li coprivano, si vedevano, dietro le semi-infrante barricate, volti foschi e raggrinzati dal furore, occhi iniettati di sangue che schizzavano fuoco ad ogni lampeggiar delle artiglierie, denti che scricchiolavano sulle lame dei pugnali e in mezzo a quell’orda di vere tigri, il loro capo, l’invincibile Sandokan, il quale, colla scimitarra in pugno, lo sguardo ardente, i lunghi capelli sciolti sugli omeri, incoraggiava i combattenti con una voce che risuonava come una tromba fra il rimbombo dei cannoni. La terribile battaglia durò venti minuti, poi l’incrociatore si portò altri seicento passi più indietro, per non venire abbordato.

      Un urlo di furore scoppiò a bordo dei due prahos, a quella nuova ritirata. Ormai non era più possibile lottare con quel nemico che, approfittando della sua macchina, evitava ogni abbordaggio. Sandokan però non voleva ancora cedere.

      Rovesciando con una irresistibile spinta gli uomini che lo circondavano si curvò sul cannone che era stato caricato, corresse la mira e vi diede fuoco. Pochi secondi dopo l’albero di maestra dell’incrociatore, sparato alla base, precipitava in mare assieme a tutti i bersaglieri delle coffe e delle crocette. Mentre il vascello si arrestava per salvare i suoi uomini che stavano per affogare e sospendeva il fuoco, Sandokan approfittava per imbarcare sul proprio legno l’equipaggio di Giro-Batol.

      – Ed ora, alla costa e di volata! – tuonò.

      Il praho di Giro-Batol, che si manteneva a galla per un vero prodigio, fu subito sgombrato ed abbandonato alle onde col suo carico di cadaveri e col suo pezzo d’artiglieria ormai inservibile.

      Subito i pirati misero mano ai remi ed approfittando dell’inazione del vascello da guerra, s’allontanarono in fretta rifugiandosi nel fiumicello. Era tempo! Il povero legno, che faceva acqua da tutte le parti, non ostante i tappi cacciati frettolosamente nei fori aperti dalle palle dell’incrociatore, affondava lentamente.

      Gemeva come un moribondo sotto il peso del liquido invasore e traballava, tendendo ad inchinarsi a babordo.

      Sandokan, che si era messo alla barra del timone, lo diresse verso la sponda vicina e lo arenò su d’un banco di sabbia.

      Appena i pirati s’accorsero che non correva più alcun pericolo di affondare, irruppero sulla tolda come un branco di tigri affamate, colle armi in pugno, i lineamenti contratti pel furore, pronti a ricominciare la lotta con egual ferocia e risoluzione.

      Sandokan li arrestò con un gesto, poi disse, guardando l’orologio che portava alla cintura:

      – Sono le sei: fra due ore il sole sarà scomparso e le tenebre piomberanno sul mare. Che ognuno si metta alacremente al lavoro onde il praho, per la mezzanotte, sia pronto a riprendere il mare.

      – Attaccheremo l’incrociatore? – chiesero i pirati, agitando freneticamente le armi.

      – Non ve lo prometto, ma vi giuro che verrà ben presto il giorno in cui noi vendicheremo la sconfitta. Noi mostreremo, al balenare dei cannoni, la nostra bandiera sventolar sui bastioni di Vittoria.

      – Viva la Tigre! – urlarono i pirati.

      – Silenzio – tuonò Sandokan. – Si mandino due uomini