Emilio Salgari

Le tigri di Monpracem


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una spianata, difesa da grandi bastioni, e armata di grossi pezzi d’artiglieria, di terrapieni e di profondi fossati e giunsero sulle rive della baia, in mezzo alla quale galleggiavano dodici o quindici velieri, che si chiamano prahos. Dinanzi ad una lunga fila di capanne e di solidi fabbricati, che parevano magazzini, trecento uomini stavano schierati in bell’ordine, in attesa d’un comando qualunque per slanciarsi, come una legione di demoni, sulle navi e spargere il terrore su tutti i mari della Malesia.

      Che uomini e che tipi!

      Vi erano dei malesi, di statura piuttosto bassa, vigorosi e agili come le scimmie, dalla faccia quadra e ossuta, dalla tinta fosca, uomini famosi per la loro audacia e ferocia; dei battias, dalla tinta ancor più fosca, noti per la loro passione per la carne umana, quantunque dotati di una civiltà relativamente assai avanzata; dei dayaki della vicina isola di Borneo, di alta statura, dai lineamenti belli, celebri per le loro stragi, che valsero loro il titolo di tagliatori di teste; dei siamesi, dal viso romboidale e gli occhi dai riflessi giallastri; dei cocincinesi, dalla tinta gialla e il capo adorno di una coda smisurata e poi degli indiani, dei bughisi, dei giavanesi, dei tagali delle Filippine e infine dei negritos con delle teste enormi ed i lineamenti ributtanti.

      All’apparire della Tigre della Malesia, un fremito percorse la lunga fila dei pirati; tutti gli occhi parvero incendiarsi e tutte le mani si raggrinzarono attorno alle armi.

      Sandokan gettò uno sguardo di compiacenza sui suoi tigrotti, come amava chiamarli, e disse:

      – Patan, fatti innanzi.

      Un malese, di statura piuttosto alta, dalle membra poderose, la tinta olivastra e vestito d’un semplice sottanino rosso adorno di alcune piume, si avanzò con quel dondolamento che è particolare agli uomini di mare.

      – Quanti uomini conta la tua banda? – chiese.

      – Cinquanta, Tigre della Malesia.

      – Tutti buoni?

      – Tutti assetati di sangue.

      – Imbarcali su quei due prahos e cedine la metà al giavanese Giro-Batol.

      – E si va?…

      Sandokan gli lanciò uno sguardo, che fece fremere l’imprudente, quantunque fosse uno di quegli uomini che si rideva della mitraglia.

      – Ubbidisci e non una parola se vuoi vivere – gli disse Sandokan.

      Il malese s’allontanò rapidamente, traendosi dietro la sua banda, composta di uomini coraggiosi fino alla pazzia e che ad un cenno di Sandokan non avrebbero esitato a saccheggiare il sepolcro di Maometto, quantunque tutti maomettani.

      – Vieni Yanez – disse Sandokan, quando li vide imbarcati.

      Stavano per scendere la spiaggia, quando furono raggiunti da un brutto negro dalla testa enorme, dalle mani ed i piedi di grandezza sproporzionata, un vero campione di quegli orribili negritos che s’incontrano nell’interno di quasi tutte le isole della Malesia.

      – Che cosa vuoi e da dove vieni, Kili-Dalù? – gli chiese Yanez.

      – Vengo dalla costa meridionale – rispose il negato, respirando affannosamente.

      – E ci rechi?

      – Una buona nuova, capo bianco; ho veduto una grossa giunca bordeggiare verso le isole Romades.

      – Era carica? – chiese Sandokan.

      – Sì, Tigre.

      – Sta bene; fra tre ore cadrà in mio potere.

      – E poi andrai a Labuan?

      – Direttamente, Yanez.

      Si erano fermati dinanzi ad una ricca baleniera, montata da quattro malesi.

      – Addio, fratello – disse Sandokan, abbracciando Yanez.

      – Addio, Sandokan. Bada di non commettere delle pazzie.

      – Non temere; sarò prudente.

      – Addio e che la tua buona stella ti protegga.

      Sandokan balzò nella baleniera e, con pochi colpi di remo, raggiunse i prahos, i quali stavano spiegando le loro immense vele. Dalla spiaggia si alzò un immenso grido.

      – Evviva la Tigre della Malesia!

      – Partiamo – comandò il pirata, volgendosi ai due equipaggi.

      Le ancore vennero salpate da due squadre di demoni color verde-oliva o giallo-sporco e i due legni, fatte due bordate, si slanciarono in pieno mare, beccheggiando sulle azzurre onde del mar Malese.

      – La rotta? – chiese Sabau a Sandokan, che aveva preso il comando del legno maggiore.

      – Diritti alle isole Romades – rispose il capo. Poi, volgendosi verso gli equipaggi, gridò:

      – Tigrotti, aprite bene gli occhi; abbiamo una giunca da saccheggiare.

      Il vento era buono, soffiando dal sud-ovest, e il mare, appena mosso non opponeva resistenza alla corsa dei due legni, i quali in breve raggiunsero una celerità superiore ai dodici nodi, velocità veramente non comune ai bastimenti a vela, ma niente straordinaria pei legni malesi, che portano vele immense e hanno scafi strettissimi e leggeri.

      I due legni, coi quali la Tigre stava per intraprendere l’audace spedizione, non erano due veri prahos i quali ordinariamente sono piccoli e sprovvisti di ponte. Sandokan e Yanez, che in fatto di cose di mare non avevano di eguali in tutta la Malesia, avevano modificati tutti i loro velieri, onde affrontare vantaggiosamente le navi che inseguivano.

      Avevano conservato le immense vele, la cui lunghezza toccava i quaranta metri e così pure gli alberi grossi, ma dotati di una certa elasticità e le manovre di fibre di gamuti e di rotang, più resistenti delle funi e più facili a trovarsi, ma avevano dato agli scafi maggiori dimensioni, alla carena forme più svelte e alla prua una solidità a tutta prova.

      Avevano inoltre fatto costruire su tutti i legni un ponte, aprire sui fianchi dei fori pei remi ed avevano eliminato uno dei due timoni che portavano i prahos e soppresso il bilanciere, attrezzi che potevano rendere meno facili gli abbordaggi.

      Malgrado i due prahos si trovassero ancora ad una grande distanza dalle Romades, verso le quali si supponeva veleggiasse la giunca scorta da Kili-Dalù, appena sparsasi la notizia della presenza di quel legno, i pirati si misero subito all’opera, onde essere pronti al combattimento.

      I due cannoni e le due grosse spingarde vennero caricati colla massima cura, si disposero sul ponte palle in gran numero e granate da lanciarsi a mano, poi fucili, scuri, sciabole d’abbordaggio e sulle murate vennero collocati i grappini d’arrembaggio, da gettarsi sulle manovre della nave nemica. Ciò fatto, quei demoni, i cui sguardi già s’accendevano d’ardente bramosia, si misero in osservazione chi sui bastingaggi, chi sulle griselle, e chi a cavalcioni dei pennoni, ansiosi tutti di scoprire la giunca che prometteva un ricco saccheggio, provenendo ordinariamente, tali navi, dai porti della Cina.

      Anche Sandokan pareva che prendesse parte all’ansietà e irrequietezza dei suoi uomini. Camminava da prua a poppa con passo nervoso, scrutando l’immensa distesa d’acqua e stringendo con una specie di rabbia l’impugnatura d’oro della sua splendida scimitarra.

      Alle dieci del mattino Mompracem scompariva sotto l’orizzonte, ma il mare appariva ancora deserto.

      Non uno scoglio in vista, non un pennacchio di fumo che indicasse la presenza di un piroscafo, non un punto bianco che segnalasse la vicinanza di qualche veliero. Una viva impazienza cominciava a invadere gli equipaggi dei due legni; gli uomini salivano e scendevano gli attrezzi imprecando, tormentavano le batterie dei fucili, facevano lampeggiare le lucenti lame dei loro avvelenati kriss e delle scimitarre.

      Ad un tratto, poco dopo il mezzodì, dall’alto dell’albero maestro s’udì una voce a gridare:

      – Ehi! guarda sottovento!

      Sandokan interruppe la sua passeggiata. Lanciò un rapido sguardo sul ponte del proprio legno, un altro su quello comandato da Giro-Batol, poi comandò:

      – Tigrotti! Ai vostri posti di combattimento!

      In