Giacomo Leopardi

Canti


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misfatto?

      Perché venimmo a sì perversi tempi?

      Perché il nascer ne desti o perché prima

      Non ne desti il morire,

      Acerbo fato? onde a stranieri ed empi

      Nostra patria vedendo ancella e schiava,

      E da mordace lima

      Roder la sua virtù, di null’aita

      E di nullo conforto

      Lo spietato dolor che la stracciava

      Ammollir ne fu dato in parte alcuna.

      Ahi non il sangue nostro e non la vita

      Avesti, o cara; e morto

      Io non son per la tua cruda fortuna.

      Qui l’ira al cor, qui la pietade abbonda:

      Pugnò, cadde gran parte anche di noi:

      Ma per la moribonda

      Italia no; per li tiranni suoi.

      Padre, se non ti sdegni,

      Mutato sei da quel che fosti in terra.

      Morian per le rutene

      Squallide piagge, ahi d’altra morte degni,

      Gl’itali prodi; e lor fea l’aere e il cielo

      E gli uomini e le belve immensa guerra.

      Cadeano a squadre a squadre

      Semivestiti, maceri e cruenti,

      Ed era letto agli egri corpi il gelo.

      Allor, quando traean l’ultime pene,

      Membrando questa desiata madre,

      Diceano: oh non le nubi e non i venti,

      Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,

      O patria nostra. Ecco da te rimoti,

      Quando più bella a noi l’età sorride,

      A tutto il mondo ignoti,

      Moriam per quella gente che t’uccide.

      Di lor querela il boreal deserto

      E conscie fur le sibilanti selve.

      Così vennero al passo,

      E i negletti cadaveri all’aperto

      Su per quello di neve orrido mare

      Dilaceràr le belve

      E sarà il nome degli egregi e forti

      Pari mai sempre ed uno

      Con quel de’ tardi e vili. Anime care,

      Bench’infinita sia vostra sciagura,

      Datevi pace; e questo vi conforti

      Che conforto nessuno

      Avrete in questa o nell’età futura.

      In seno al vostro smisurato affanno

      Posate, o di costei veraci figli,

      Al cui supremo danno

      Il vostro solo è tal che s’assomigli.

      Di voi già non si lagna

      La patria vostra, ma di chi vi spinse

      A pugnar contra lei,

      Sì ch’ella sempre amaramente piagna

      E il suo col vostro lacrimar confonda.

      Oh di costei ch’ogni altra gloria vinse

      Pietà nascesse in core

      A tal de’ suoi ch’affaticata e lenta

      Di sì buia vorago e sì profonda

      La ritraesse! O glorioso spirto,

      Dimmi: d’Italia tua morto è l’amore?

      Di’: quella fiamma che t’accese, è spenta?

      Di’: né più mai rinverdirà quel mirto

      Ch’alleggiò per gran tempo il nostro male?

      Nostre corone al suol fien tutte sparte?

      Né sorgerà mai tale

      Che ti rassembri in qualsivoglia parte?

      In eterno perimmo? e il nostro scorno

      Non ha verun confine?

      Io mentre viva andrò sclamando intorno,

      Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;

      Mira queste ruine

      E le carte e le tele e i marmi e i templi;

      Pensa qual terra premi; e se destarti

      Non può la luce di cotanti esempli,

      Che stai? levati e parti.

      Non si conviene a sì corrotta usanza

      Questa d’animi eccelsi altrice e scola:

      Se di codardi è stanza,

      Meglio l’è rimaner vedova e sola.

      III. AD ANGELO MAI QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE “DELLA REPUBBLICA”

      Italo ardito, a che giammai non posi

      Di svegliar dalle tombe

      I nostri padri? ed a parlar gli meni

      A questo secol morto, al quale incombe

      Tanta nebbia di tedio? E come or vieni

      Sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente,

      Voce antica de’ nostri,

      Muta sì lunga etade? e perché tanti

      Risorgimenti? In un balen feconde

      Venner le carte; alla stagion presente

      I polverosi chiostri

      Serbaro occulti i generosi e santi

      Detti degli avi. E che valor t’infonde,

      Italo egregio, il fato? O con l’umano

      Valor forse contrasta il fato invano?

      Certo senza de’ numi alto consiglio

      Non è ch’ove più lento

      E grave è il nostro disperato obblio,

      A percoter ne rieda ogni momento

      Novo grido de’ padri. Ancora è pio

      Dunque all’Italia il cielo; anco si cura

      Di noi qualche immortale:

      Ch’essendo questa o nessun’altra poi

      L’ora da ripor mano alla virtude

      Rugginosa dell’itala natura,

      Veggiam che tanto e tale

      È il clamor de’ sepolti, e che gli eroi

      Dimenticati il suol quasi dischiude,

      A ricercar s’a questa età sì tarda

      Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

      Di noi serbate, o gloriosi, ancora

      Qualche speranza? in tutto

      Non siam periti? A voi forse il futuro

      Conoscer non si toglie. Io son distrutto

      Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro

      M’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno

      È tal che sogno e fola

      Fa parer la speranza. Anime prodi,

      Ai tetti vostri inonorata, immonda

      Plebe successe; al vostro sangue è scherno

      E d’opra e di parola

      Ogni valor; di vostre eterne lodi

      Né rossor più né invidia; ozio circonda

      I monumenti vostri; e di viltade

      Siam fatti esempio alla