Giacomo Leopardi

Canti


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nostri alti parenti,

      A te ne caglia, a te cui fato aspira

      Benigno sì che per tua man presenti

      Paion que’ giorni allor che dalla dira

      Obblivione antica ergean la chioma,

      Con gli studi sepolti,

      I vetusti divini, a cui natura

      Parlò senza svelarsi, onde i riposi

      Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.

      Oh tempi, oh tempi avvolti

      In sonno eterno! Allora anco immatura

      La ruina d’Italia, anco sdegnosi

      Eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo

      Più faville rapia da questo suolo.

      Eran calde le tue ceneri sante,

      Non domito nemico

      Della fortuna, al cui sdegno e dolore

      Fu più l’averno che la terra amico.

      L’averno: e qual non è parte migliore

      Di questa nostra? E le tue dolci corde

      Susurravano ancora

      Dal tocco di tua destra, o sfortunato

      Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce

      L’italo canto. E pur men grava e morde

      Il mal che n’addolora

      Del tedio che n’affoga. Oh te beato,

      A cui fu vita il pianto! A noi le fasce

      Cinse il fastidio; a noi presso la culla

      Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

      Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,

      Ligure ardita prole,

      Quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti

      Cui strider l’onde all’attuffar del sole

      Parve udir su la sera, agl’infiniti

      Flutti commesso, ritrovasti il raggio

      Del Sol caduto, e il giorno

      Che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;

      E rotto di natura ogni contrasto,

      Ignota immensa terra al tuo viaggio

      Fu gloria, e del ritorno

      Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo

      Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto

      L’etra sonante e l’alma terra e il mare

      Al fanciullin, che non al saggio, appare.

      Nostri sogni leggiadri ove son giti

      Dell’ignoto ricetto

      D’ignoti abitatori, o del diurno

      Degli astri albergo, e del rimoto letto

      Della giovane Aurora, e del notturno

      Occulto sonno del maggior pianeta?

      Ecco svaniro a un punto,

      E figurato è il mondo in breve carta;

      Ecco tutto è simile, e discoprendo,

      Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta

      Il vero appena è giunto,

      O caro immaginar; da te s’apparta

      Nostra mente in eterno; allo stupendo

      Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;

      E il conforto perì de’ nostri affanni.

      Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo

      Sole splendeati in vista,

      Cantor vago dell’arme e degli amori,

      Che in età della nostra assai men trista

      Empièr la vita di felici errori:

      Nova speme d’Italia. O torri, o celle,

      O donne, o cavalieri,

      O giardini, o palagi! a voi pensando,

      In mille vane amenità si perde

      La mente mia. Di vanità, di belle

      Fole e strani pensieri

      Si componea l’umana vita: in bando

      Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde

      È spogliato alle cose? Il certo e solo

      Veder che tutto è vano altro che il duolo.

      O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa

      Tua mente allora, il pianto

      A te, non altro, preparava il cielo.

      Oh misero Torquato! il dolce canto

      Non valse a consolarti o a sciorre il gelo

      Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,

      Cinta l’odio e l’immondo

      Livor privato e de’ tiranni. Amore,

      Amor, di nostra vita ultimo inganno,

      T’abbandonava. Ombra reale e salda

      Ti parve il nulla, e il mondo

      Inabitata piaggia. Al tardo onore

      Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,

      L’ora estrema ti fu. Morte domanda

      Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

      Torna torna fra noi, sorgi dal muto

      E sconsolato avello,

      Se d’angoscia sei vago, o miserando

      Esemplo di sciagura. Assai da quello

      Che ti parve sì mesto e sì nefando,

      È peggiorato il viver nostro. O caro,

      Chi ti compiangeria,

      Se, fuor che di se stesso, altri non cura?

      Chi stolto non direbbe il tuo mortale

      Affanno anche oggidì se il grande e il raro

      Ha nome di follia;

      Né livor più, ma ben di lui più dura

      La noncuranza avviene ai sommi? o quale,

      Se più de’ carmi, il computar s’ascolta,

      Ti appresterebbe il lauro un’altra volta?

      Da te fino a quest’ora uom non è sorto,

      O sventurato ingegno,

      Pari all’italo nome, altro ch’un solo,

      Solo di sua codarda etate indegno

      Allobrogo feroce, a cui dal polo

      Maschia virtù, non già da questa mia

      Stanca ed arida terra,

      Venne nel petto; onde privato, inerme,

      (Memorando ardimento) in su la scena

      Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia

      Questa misera guerra

      E questo vano campo all’ire inferme

      Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena

      Scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto

      Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

      Disdegnando e fremendo, immacolata

      Trasse la vita intera,

      E morte lo scampò dal veder peggio.

      Vittorio mio, questa per te non era

      Età né suolo. Altri anni ed altro seggio

      Conviene agli alti ingegni. Or di riposo

      Paghi viviamo, e scorti

      Da