Giacomo Leopardi

Canti


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no, ma spettatrice almeno.

      VIII. INNO AI PATRIARCHI O DE’ PRINCIPII DEL GENERE UMANO

      E voi de’ figli dolorosi il canto,

      Voi dell’umana prole incliti padri,

      Lodando ridirà; molto all’eterno

      Degli astri agitator più cari, e molto

      Di noi men lacrimabili nell’alma

      Luce prodotti. Immedicati affanni

      Al misero mortal, nascere al pianto,

      E dell’etereo lume assai più dolci

      Sortir l’opaca tomba e il fato estremo,

      Non la pietà, non la diritta impose

      Legge del cielo. E se di vostro antico

      Error che l’uman seme alla tiranna

      Possa de’ morbi e di sciagura offerse,

      Grido antico ragiona, altre più dire

      Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno,

      E demenza maggior l’offeso Olimpo

      N’armaro incontra, e la negletta mano

      Dell’altrice natura; onde la viva

      Fiamma n’increbbe, e detestato il parto

      Fu del grembo materno, e violento

      Emerse il disperato Erebo in terra.

      Tu primo il giorno, e le purpuree faci

      Delle rotanti sfere, e la novella

      Prole de’ campi, o duce antico e padre

      Dell’umana famiglia, e tu l’errante

      Per li giovani prati aura contempli:

      Quando le rupi e le deserte valli

      Precipite l’alpina onda feria

      D’inudito fragor; quando gli ameni

      Futuri seggi di lodate genti

      E di cittadi romorose, ignota

      Pace regnava; e gl’inarati colli

      Solo e muto ascendea l’aprico raggio

      Di febo e l’aurea luna. Oh fortunata,

      Di colpe ignara e di lugubri eventi,

      Erma terrena sede! Oh quanto affanno

      Al gener tuo, padre infelice, e quale

      D’amarissimi casi ordine immenso

      Preparano i destini! Ecco di sangue

      Gli avari colti e di fraterno scempio

      Furor novello incesta, e le nefande

      Ali di morte il divo etere impara.

      Trepido, errante il fratricida, e l’ombre

      Solitarie fuggendo e la secreta

      Nelle profonde selve ira de’ venti,

      Primo i civili tetti, albergo e regno

      Alle macere cure, innalza; e primo

      Il disperato pentimento i ciechi

      Mortali egro, anelante, aduna e stringe

      Ne’ consorti ricetti: onde negata

      L’improba mano al curvo aratro, e vili

      Fur gli agresti sudori; ozio le soglie

      Scellerate occupò; ne’ corpi inerti

      Domo il vigor natio, languide, ignave

      Giacquer le menti; e servitù le imbelli

      Umane vite, ultimo danno, accolse.

      E tu dall’etra infesto e dal mugghiante

      Su i nubiferi gioghi equoreo flutto

      Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima

      Dall’aer cieco e da’ natanti poggi

      Segno arrecò d’instaurata spene

      La candida colomba, e delle antiche

      Nubi l’occiduo Sol naufrago uscendo,

      L’atro polo di vaga iri dipinse.

      Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi

      Studi rinnova e le seguaci ambasce

      La riparata gente. Agl’inaccessi

      Regni del mar vendicatore illude

      Profana destra, e la sciagura e il pianto

      A novi liti e nove stelle insegna.

      Or te, padre de’ pii, te giusto e forte,

      E di tuo seme i generosi alunni

      Medita il petto mio. Dirò siccome

      Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre

      Del riposato albergo, appo le molli

      Rive del gregge tuo nutrici e sedi,

      Te de’ celesti peregrini occulte

      Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio

      Della saggia Rebecca, in su la sera,

      Presso al rustico pozzo e nella dolce

      Di pastori e di lieti ozi frequente

      Aranitica valle, amor ti punse

      Della vezzosa Labanide: invitto

      Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni

      E di servaggio all’odiata soma

      Volenteroso il prode animo addisse.

      Fu certo, fu (né d’error vano e d’ombra

      L’aonio canto e della fama il grido

      Pasce l’avida plebe) amica un tempo

      Al sangue nostro e dilettosa e cara

      Questa misera piaggia, ed aurea corse

      Nostra caduca età. Non che di latte

      Onda rigasse intemerata il fianco

      Delle balze materne, o con le greggi

      Mista la tigre ai consueti ovili

      Né guidasse per gioco i lupi al fonte

      Il pastorel; ma di suo fato ignara

      E degli affanni suoi, vota d’affanno

      Visse l’umana stirpe; alle secrete

      Leggi del cielo e di natura indutto

      Valse l’ameno error, le fraudi, il molle

      Pristino velo; e di sperar contenta

      Nostra placida nave in porto ascese.

      Tal fra le vaste californie selve

      Nasce beata prole, a cui non sugge

      Pallida cura il petto, a cui le membra

      Fera tabe non doma; e vitto il bosco,

      Nidi l’intima rupe, onde ministra

      L’irrigua valle, inopinato il giorno

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