Giacomo Leopardi

Canti


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stupido mirò l’ardua palestra,

      Né la palma beata e la corona

      D’emula brama il punse. E nell’Alfeo

      Forse le chiome polverose e i fianchi

      Delle cavalle vincitrici asterse

      Tal che le greche insegne e il greco acciaro

      Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi

      Nelle pallide torme; onde sonaro

      Di sconsolato grido

      L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.

      Vano dirai quel che disserra e scote

      Della virtù nativa

      Le riposte faville? e che del fioco

      Spirto vital negli egri petti avviva

      Il caduco fervor? Le meste rote

      Da poi che Febo instiga, altro che gioco

      Son l’opre de’ mortali? ed è men vano

      Della menzogna il vero? A noi di lieti

      Inganni e di felici ombre soccorse

      Natura stessa: e là dove l’insano

      Costume ai forti errori esca non porse,

      Negli ozi oscuri e nudi

      Mutò la gente i gloriosi studi.

      Tempo forse verrà ch’alle ruine

      Delle italiche moli

      Insultino gli armenti, e che l’aratro

      Sentano i sette colli; e pochi Soli

      Forse fien volti, e le città latine

      Abiterà la cauta volpe, e l’atro

      Bosco mormorerà fra le alte mura;

      Se la funesta delle patrie cose

      Obblivion dalle perverse menti

      Non isgombrano i fati, e la matura

      Clade non torce dalle abbiette genti

      Il ciel fatto cortese

      Dal rimembrar delle passate imprese.

      Alla patria infelice, o buon garzone,

      Sopravviver ti doglia.

      Chiaro per lei stato saresti allora

      Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,

      Nostra colpa e fatal. Passò stagione;

      Che nullo di tal madre oggi s’onora:

      Ma per te stesso al polo ergi la mente.

      Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

      Beata allor che ne’ perigli avvolta,

      Se stessa obblia, né delle putri e lente

      Ore il danno misura e il flutto ascolta;

      Beata allor che il piede

      Spinto al varco leteo, più grata riede.

      VI. BRUTO MINORE

      Poi che divelta, nella tracia polve

      Giacque ruina immensa

      L’italica virtute, onde alle valli

      D’Esperia verde, e al tiberino lido,

      Il calpestio de’ barbari cavalli

      Prepara il fato, e dalle selve ignude

      Cui l’Orsa algida preme,

      A spezzar le romane inclite mura

      Chiama i gotici brandi;

      Sudato, e molle di fraterno sangue,

      Bruto per l’atra notte in erma sede,

      Fermo già di morir, gl’inesorandi

      Numi e l’averno accusa,

      E di feroci note

      Invan la sonnolenta aura percote.

      Stolta virtù, le cave nebbie, i campi

      Dell’inquiete larve

      Son le tue scole, e ti si volge a tergo

      Il pentimento. A voi, marmorei numi,

      (Se numi avete in Flegetonte albergo

      O su le nubi) a voi ludibrio e scherno

      È la prole infelice

      A cui templi chiedeste, e frodolenta

      Legge al mortale insulta.

      Dunque tanto i celesti odii commove

      La terrena pietà? dunque degli empi

      Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta

      Per l’aere il nembo, e quando

      Il tuon rapido spingi,

      Ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi?

      Preme il destino invitto e la ferrata

      Necessità gl’infermi

      Schiavi di morte: e se a cessar non vale

      Gli oltraggi lor, de’ necessarii danni

      Si consola il plebeo. Men duro è il male

      Che riparo non ha? dolor non sente

      Chi di speranza è nudo?

      Guerra mortale, eterna, o fato indegno,

      Teco il prode guerreggia,

      Di cedere inesperto; e la tiranna

      Tua destra, allor che vincitrice il grava,

      Indomito scrollando si pompeggia,

      Quando nell’alto lato

      L’amaro ferro intride,

      E maligno alle nere ombre sorride.

      Spiace agli Dei chi violento irrompe

      Nel Tartaro. Non fora

      Tanto valor ne’ molli eterni petti.

      Forse i travagli nostri, e forse il cielo

      I casi acerbi e gl’infelici affetti

      Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?

      Non fra sciagure e colpe,

      Ma libera ne’ boschi e pura etade

      Natura a noi prescrisse,

      Reina un tempo e Diva. Or poi ch’a terra

      Sparse i regni beati empio costume,

      E il viver macro ad altre leggi addisse;

      Quando gl’infausti giorni

      Virile alma ricusa,

      Riede natura, e il non suo dardo accusa?

      Di colpa ignare e de’ lor proprii danni

      Le fortunate belve

      Serena adduce al non previsto passo

      La tarda età. Ma se spezzar la fronte

      Ne’ rudi tronchi, o da montano sasso

      Dare al vento precipiti le membra,

      Lor suadesse affanno

      Al misero desio nulla contesa

      Legge arcana farebbe

      O tenebroso ingegno. A voi, fra quante

      Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,

      Figli di Prometeo, la vita increbbe;

      A voi le morte ripe,

      Se il fato ignavo pende,

      Soli, o miseri, a voi Giove contende.

      E tu dal mar cui nostro sangue irriga,

      Candida luna, sorgi,

      E l’inquieta notte e la funesta

      All’ausonio valor campagna esplori.

      Cognati petti il