sementi, mentre suo figlio leggeva ad alta voce un buon libro, e le donne agucchiavano. Una sera di gennaio la pioggia cadeva a scrosci, il vento fischiava fra gli alberi, la famiglia era sola, raccolta nel tepore della stufa, quando si udì una scampanellata che indicava molta fretta.
– Sarà il maestro Zecchini che si bagna, disse il capitano.
Mosè corse ad aprire. Due sconosciuti domandarono se il signor Stefano Bonifazio era in casa.
– Sì, signori, rispose il domestico, vengano avanti; e dopo di averli introdotti nell'atrio, domandò chi doveva annunziare.
Uno di loro rispose:
– Pregatelo di uscire un momento, abbiamo bisogno di dirgli una parola.
Mosè entrò nel salotto col volto turbato, dicendo che c'erano di fuori due figure antipatiche che volevano parlare col signor Stefano.
Stefano impallidì, il capitano se ne avvide e gli disse:
– Andiamo a vedere.
Uscirono insieme, lasciando le donne inquiete, nell'ansietà di un pensiero sospettoso.
Erano due impiegati di Polizia, un commissario col suo assistente.
Il primo mostrò l'ordine superiore, l'altro uscì a cercare le guardie che aspettavano dietro al cancello. Fecero una rigorosa perquisizione, misero sottosopra la casa, raccolsero varie lettere di Gervasio, dei documenti, delle carte varie, ne fecero un pacco e vi apposero il sigillo, raccolsero tutte le armi e ne fecero un fascio, poi intimarono l'arresto di Stefano.
Ogni opposizione era vana. Il capitano frenava a stento lo sdegno che lo agitava. Le signore sulla porta del salotto, guardate a vista, supplicavano invano che a motivo della burrasca, aspettassero fino al mattino. Il commissario fu irremovibile, e intimò la partenza.
Stefano corse a dare un bacio alla sua bambina, che dormiva tranquillamente, poi si gettò nelle braccia della moglie che svenne.
La adagiarono sul canapè. Maddalena che voleva soccorrerla, non sapeva quello che si facesse; era fuori di sè, e barcollava.
Il capitano cercava un'arma per fare un massacro, ma erano già tutte scomparse; le avevano portato fuori col pacco delle carte. Nella confusione generale, due sbirri presero Stefano sotto le braccia e lo trascinarono, seguiti dagli altri poliziotti, fino ad una vettura che aspettava a piccola distanza della casa. Lo fecero entrare nel calesse, tutti si collocarono nello stesso veicolo, chi dentro e chi fuori, e sferzati i cavalli partirono.
In casa la desolazione e lo squallore erano succeduti alla pace d'un'ora prima. Beppina colle mani nei capelli, coricata sul canapè, chiamava il suo Stefano, mandando dei singhiozzi convulsi che parevano soffocarla. Maddalena in ginocchio se la stringeva al seno, piangendo dirottamente, il capitano col volto sconvolto, girava per la casa come un pazzo, senza sapere dove andava; Mosè lo seguiva col lume in mano senza parlare.
Il primo a riprendere il dominio di sè stesso, fu il vecchio soldato, ma tutti i suoi ragionamenti riuscirono vani; nè la madre, nè la moglie, potevano consolarsi di tanta sventura; ascoltando gli scrosci della pioggia e i sibili del vento di quella orribile notte, pensavano ai patimenti fisici e morali del povero arrestato durante il viaggio, e poi negli orrori della prigione; conoscevano i processi lunghi e insidiosi dell'Austria, paventavano delle sue crudeltà; i genitori erano rimasti senza figlio, la moglie senza marito, la figlia senza padre! ogni felicità era scomparsa da quella casa, quella gente onesta e tranquilla non aveva diritto di amare il suo paese, nè di volerlo libero dagli stranieri, i quali si credevano in diritto di punire severamente i più nobili sentimenti della natura e dell'umana dignità.
Quella notte tutti vegliarono, oppressi dall'angoscia, spaventati dall'avvenire.
Il giorno seguente si sparse la notizia di molti arresti fatti nella stessa notte. Accorsero gli amici, ma nessun conforto poteva consolare quegli infelici caduti vittime di tale sventura.
I prigionieri erano partiti per Mantova. Stefano fu gettato solo in una cella angusta, umida, oscura ed infetta, e pensava ai suoi cari, alla disperazione della moglie e della madre, all'afflizione del padre, alla bambina, alla casa, alle dolci abitudini domestiche. Quel cambiamento repentino di vita, quel rapido trapasso dalle gioie serene della famiglia, alle torbide agitazioni d'un processo pericoloso, dall'aria profumata d'un parco all'afa nauseabonda del carcere, era un colpo troppo violento per restare senza conseguenze sopra un giovane felice ed avvezzo all'aria libera dei campi.
Quando i patemi d'animo, che lacerano il cuore, sono accompagnati da tutte le angustie del corpo, la natura umana soccombe.
Dopo un accesso violento di disperazione, di furore e di lagrime, Stefano cadde sfinito sul fetido pagliericcio della prigione, e gli parve di essere stato sepolto vivo. Pensava alla vita passata come ad un altro mondo, abitato in un'epoca lontana, prima d'essere precipitato in fondo d'un precipizio. Provava una sete ardente accompagnata da affanni e da nausea.
Fu trascinato davanti il giudice inquisitore colla febbre; le arterie delle tempie gli battevano come due martelli. Non intendeva le domande che gli venivano indirizzate, rispondeva con sdegnoso disprezzo, con pungente ironia, gli pareva di trovarsi fra le unghie adunche d'una belva feroce che stesse per divorarlo.
Ritornato nella sordida cella fu visitato dal medico che lo trovò coi lineamenti immobili, colla lingua e i denti fuliginosi, in una prostrazione di forze completa; rispondeva lentamente, con parole insensate. Il medico conobbe i primi sintomi d'una febbre tifoide, e ordinò che fosse subito trasportato all'infermeria. Il povero infermo non se ne avvide nemmeno. Gli comparvero sul volto delle macchie rosse che sparivano sotto la pressione delle dita.
Passò più d'un mese in questo stato, poi cominciò a peggiorare, e aveva perduto i sensi da qualche giorno, quando alle ripetute istanze della famiglia fu concesso di visitarlo.
I parenti partirono subito per Mantova. Il giorno dopo del loro arrivo, il capitano colla faccia sparuta, ma fiera, conduceva la moglie e la nuora, che parevano uscite da una tomba, e camminavano sostenendosi reciprocamente, attraverso gli squallidi e infetti corridoi della prigione, sotto la scorta d'un attuario e d'un secondino. Il malato non conobbe nessuno, i poveri parenti non videro che una faccia cadaverica, coperta da un sudore viscido, con un respiro affannoso, che era il solo segnale di vita che gli restava.
La Beppina cadde su quel sordido pagliericcio, perdendo i sensi, ed anche la povera madre stava per venir meno. Uscirono dalla infermeria, Maddalena sostenuta dal marito, e la Beppina trasportata da due infermieri. Adagiarono le misere donne in una carrozza che le condusse all'albergo. Chiamato subito un medico, la Maddalena fece uno sforzo sovrumano per assistere la nuora, reggendosi appena sulle gambe.
Beppina era incinta di quattro mesi. Quando giunse alla villa il permesso di visitare il moribondo, i genitori pronti a partire, avevano fatto una vivissima opposizione al viaggio della nuora, della quale conoscevano la condizione pericolosa, peggiorata dalla disperazione per la prigionia del marito, e dalle gravi notizie sulla sua malattia, che erano state comunicate da Mantova. Ma ogni resistenza fu vana; non valsero nè le ragioni persuasive del medico, nè i più affettuosi consigli dei suoceri, essa si irritava talmente contro chiunque volesse impedirle di rivedere il suo Stefano, che in fine parve meno pericoloso il condurla con loro che il lasciarla a casa in preda della disperazione.
Partì in uno stato di grande debolezza, con violente palpitazioni di cuore, ma si sostenne durante il viaggio a forza d'energia, la quale la resse fino alla porta dell'infermeria, ma la abbandonò totalmente all'aspetto dell'ammalato, ridotto in tale stato che era appena riconoscibile.
Coricata nel letto dell'albergo, all'arrivo del medico la misera donna aveva già abortito, e la violenta emorragia cominciava a svenarla. Non le mancarono le cure più sollecite ed affettuose, ma il medico non dissimulava la gravità del pericolo, e diceva al capitano:
– Caro signore, le carceri politiche hanno ucciso più donne che prigionieri. Questi resistono con vigore alle prove tremende, perchè sono animati da un altissimo sentimento che sostiene il loro coraggio, ma le madri e le spose soccombono colle viscere straziate dalla violenza che le privò dei figli e dei mariti. Nella condizione di vostra nuora colpita atrocemente nel giorno dell'arresto, quest'ultima scossa terribile fu un colpo mortale.
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