Caccianiga Antonio

La famiglia Bonifazio; racconto


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a parlare ad un colonnello che cercava un comodo alloggio in mezzo ai suoi soldati. Gli si presentò col cappello in mano, in attitudine riverente, e gli disse:

      – Se Vostra Eccellenza desidera un magnifico alloggio non ha che comandarmi; io sono il maestro del villaggio, e non ho altro desiderio che quello di servirla bene.

      Il colonnello volle vedere, lo seguì, e fu soddisfattissimo; e quando fu bene installato accolse con benevolenza un rispettoso reclamo che gli fu fatto dal maestro in favore degli alberi del giardino.

      I soldati coi cavalli ricevettero l'ordine di sgombrare immediatamente, e di ritirarsi nelle adiacenze, con l'obbligo di mai più mettere i piedi nel parco, e una sentinella fu collocata in sito opportuno colla consegna di non lasciar passare alcuno, e di sorvegliare la proprietà.

      Partito quell'ufficiale superiore ne venne un altro dello stesso grado, e così di seguito. La tradizione conservò l'abitudine dell'alloggio riservato, e così fu preservato dalla devastazione quel delizioso soggiorno.

      Ma intanto i proprietari vagavano raminghi per le terre d'Italia, invase per ogni parte da eserciti nemici.

      Milano ricadeva in mano dell'Austria, e tutto il sangue sparso dagli Italiani in quei mesi di lotta e di ansietà non valse a liberarli dalla invasione.

      La sola Venezia resisteva eroicamente, e i Bonifazio si recarono colà, per contribuire alla difesa.

      Le vicende dell'assedio di Venezia sono forse la più bella pagina nella storia della nostra emancipazione.

      Questa gloriosa città, tradita ed oppressa, che si ridesta alla libertà, dopo l'umiliazione del dominio straniero, che lacera e insanguinata si difende contro un nemico potente, combatte valorosamente, intrepida fra le rovine delle fortificazioni, che estenuata dalla fame, decimata dal coléra e dalle bombe, decide di resistere ad ogni costo, offerse un esempio di tale fermezza indomabile, che le guadagnò l'ammirazione del mondo.

      I Bonifazio furono fra quelli eroi che presero parte alla sortita di Mestre, e che difesero Marghera fino che fu ridotta ad un mucchio di rovine. Ma il vecchio soldato di Napoleone fu il solo che potè ritirarsi incolume in città dopo di aver combattuto per tanti giorni in mezzo ad un diluvio di palle.

      Gervasio rimasto fra gli ultimi sulla breccia fu ferito alla mano destra e Stefano ebbe una gamba traforata da una palla; e passarono gli ultimi tempi dell'assedio all'ambulanza.

      Finito l'ultimo pane nero, e l'ultima carica di cannone, Venezia dovette cedere senza esser vinta.

      Al momento della capitolazione i due fratelli erano ancora convalescenti. Tennero consiglio col padre, il quale pensando alla povera donna che non li aveva visti da più d'un anno, desiderava che volessero tornare entrambi a casa con lui. Per Stefano non ci poteva esser dubbio, poichè non era in caso di tenersi in piedi senza l'aiuto d'un bastone, ma Gervasio storpiato alla mano destra si rifiutò recisamente di ritornare a vivere sotto il governo austriaco, preferì di condannarsi all'esilio. Il padre non volle insistere, nella speranza d'un pronto risveglio della nazione e d'un ritorno alle armi.

      La separazione fu dolorosa. Gervasio s'imbarcò in un bastimento francese, e il vecchio soldato, sostenendo sotto il braccio il più giovane dei suoi figli ferito, ritornò alla sua villa.

      Povera Maddalena!.. quando li vide entrare pallidi e magri, col suo Stefano ferito, e senza Gervasio, fu costretta di sostenersi ad un albero per non cadere; poi fatto animo e ripreso fiato si gettò nelle braccia loro esclamando:

      – Dove è Gervasio?..

      – È partito… risposero, ma speriamo di rivederlo fra poco…

      – È morto! essa gridò con accento straziante, il mio povero Gervasio è morto!.. sarebbe qui di sicuro se non fosse morto!..

      Non voleva persuadersi che fosse partito, che avesse preferito l'esilio alla casa paterna, alle cure di sua madre!

      – Ha preferito l'esilio all'umiliazione di vivere sotto il giogo dei nostri nemici, come tanti altri suoi compagni, le disse il marito; ma le cose non possono durare a questo modo, – e manifestando tutte le illusioni di quel tempo, si studiava di provare l'impossibilità d'un lungo dominio austriaco in Italia, perchè i popoli coraggiosi possono tutto quello che vogliono; ma Maddalena non lo ascoltava più, baciava teneramente il suo Stefano, lo interrogava ansiosamente sulla ferita che gl'impediva di camminare, lo fece sedere in una poltrona, apportò dei ristori ai poveri viaggiatori sfiniti dai lunghi patimenti, dalla fame, dalla fatica del viaggio, in quello stato.

      Appena saputo il loro ritorno accorse anche il maestro Zecchini, e non finiva mai d'interrogarli sui più minuti particolari del memorabile assedio; si mostrò desolato per tante sventure, e voleva sostenere che bisognava rassegnarsi al destino, che era finita per sempre, che sarebbe assolutamente impossibile di vincere la potenza austriaca. Il capitano lasciò andare un pugno così violento sul tavolo che fece saltare i piatti e i bicchieri, e così incominciarono nuovamente le diatribe fra i due vecchi amici, che dopo l'assenza ritornavano a vivere insieme, sempre inseparabili, e sempre discordi.

      Intanto il Gervasio navigava verso la Francia, e pochi giorni dopo sbarcava a Marsiglia coi molti esiliati di Venezia, i quali si dispersero in vari paesi.

      Egli partì per Parigi colla speranza di trovare un'occupazione per non vivere a carico della famiglia. Ma in quel tempo la capitale francese rigurgitava di emigrati d'ogni parte d'Europa; le varie rivoluzioni del quarant'otto vi avevano gettato i loro naufraghi, che cercavano un rifugio. Tutte le passioni umane, e i diversi partiti politici si concentravano nel cervello del mondo; la vita era una lotta di forze contrarie che si agitavano convulse fra gli amari disinganni del passato, e le più esagerate illusioni dell'avvenire.

      Ad un'anima mite e senza ambizioni, come quella di Gervasio, la vita tumultuosa rendeva più doloroso l'esilio. Dopo lunga aspettativa gli venne offerta una cattedra di lingua italiana in Bretagna. Non esitò ad accettarla perchè sentiva anche il bisogno di quella pace campestre nella quale era stato allevato, e che gli mancava affatto nel movimento turbinoso della moderna babilonia.

      Ma il clima umido e triste della Bretagna accresceva la sua malinconia, e la vita solitaria gli faceva sentire doppiamente tutte le amarezze della nostalgìa. Non vide mai sorgere quel sole opaco dietro le nebbie, senza che il suo pensiero non lo trasportasse alla casa paterna; e la vedeva da lontano, illuminata dallo splendido sole d'Italia, e gli pareva di udire lo stormir delle fronde dei suoi boschetti, il pigolìo dei passeri al crepuscolo, credeva di respirare l'olezzo di quelle piante, e sentiva l'aria pura dei monti e del Piave, che gli sbatteva il viso, quando appariva il balcone della sua cameretta così piena di ricordi. La modesta stanza di Bretagna non aveva nulla che sorridesse alla memoria dell'emigrato; e i prospetti, l'aria, gli accenti, le esalazioni, tutto gli rammentava l'isolamento, e la lontananza della patria.

      I giorni delle feste solenni erano i più dolorosi. Tutti si raccoglievano lietamente alla mensa di famiglia, il povero emigrato viveva solo, colla memoria delle affettuose cure materne, delle abitudini domestiche del padre e del fratello, e della perduta compagnia degli amici.

      Bisognava cercare degli altri derelitti per fare insieme società.

      Conobbe allora i Ravelli, emigrati lombardi. La famigliuola si componeva del padre vedovo, del figlio Battistino, che fu ferito al Tonale difendendo quel passo alpino coi volontari, e di sua sorella Angelina, una buona ragazza di diciotto anni. Scambiavano fra loro le amarezze e i conforti comuni, dividevano i timori e le speranze, e quelle eterne illusioni degli esuli, sempre distrutte dagli avvenimenti, e sempre rinascenti dalle stesse rovine. Ogni primavera speravano il ritorno in patria per il prossimo autunno, ogni autunno per la ventura primavera; ma ogni volta che si credevano vicini al porto, una burrasca inaspettata li rigettava in alto mare. Tornato il cielo sereno, esaminavano l'orizzonte, e ad ogni nuvoletta lontana pronosticavano l'uragano che doveva sconvolgere l'Europa, far trionfare la libertà, e restituirli al loro paese; ma un venticello importuno rasserenava il cielo. Si lamentavano della indifferenza di tutte le nazioni per ciò che violava i loro diritti e il loro onore, vedevano in ogni piccolo alterco diplomatico un'offesa sanguinosa che rendeva indispensabile la guerra, aspettavano ansiosamente la dichiarazione desiderata; ma la pace si andava consolidando a loro dispetto, e l'esilio temporaneo diventava domicilio