trovava senza timore nella reggia di Treveri, allorchè alla distanza di molte centinaia di miglia Valentiniano subitamente morì nel campo di Bregezio. Le passioni che sì lungo tempo erano state soppresse dalla presenza d'un dominante, immediatamente si ravvivarono nel consiglio Imperiale; e l'ambizioso disegno di regnare in nome di un fanciullo fu posto artificiosamente in effetto da Mellobaude e da Equizio, che avevano per sè l'amore delle truppe Illiriche ed Italiane. Immaginarono essi i più onorevoli pretesti per rimuovere i Capi del popolo e le truppe della Gallia, che avrebber potuto sostenere i diritti del legittimo successore; e suggerirono con un ardito e decisivo passo la necessità di estinguere le speranze dei nemici sì domestici che stranieri. L'Imperatrice Giustina, che era restata in un palazzo circa cento miglia lontano da Bregezio, fu rispettosamente invitata a venire nel campo col figlio del morto Imperatore. Il sesto giorno dopo la morte di Valentiniano, il Principe fanciullo dell'istesso nome, che non aveva più di quattr'anni, fu mostrato nelle braccia della propria madre alle legioni, e coll'acclamazion militare solennemente investito dei titoli e delle insegne del potere supremo. La savia e moderata condotta dell'Imperator Graziano impedì a tempo gli imminenti pericoli d'una guerra civile. Accettò volentieri la scelta dell'esercito; dichiarò che avrebbe sempre risguardato il figlio di Giustina come fratello, non come rivale; e consigliò l'Imperatrice a stabilire col figlio di Valentiniano la sua residenza a Milano nella bella e pacifica provincia dell'Italia, mentre egli assumeva il più difficil comando delle regioni oltre le alpi. Graziano dissimulò il suo sdegno finattanto che potesse con sicurezza punire, o svergognare gli autori della cospirazione: e sebbene si diportasse con uniforme tenerezza e riguardo verso il suo infante collega, tuttavia nell'amministrazione dell'Impero occidentale confuse appoco appoco l'uffizio di tutore coll'autorità di Sovrano. Si esercitava il governo del Mondo Romano unitamente in nome di Valente e dei suoi due nipoti: ma il debole Imperator Orientale, che in questa dignità successe al suo fratello maggiore, non ebbe mai peso od ascendente veruno nei consigli dell'Occidente157.
RIFLESSIONI
LETTERA I
So per lunga esperienza, che l'amore del vero, e lo zelo per la Santa Religione Cattolica, che vi siete obbligati con giuramento solenne di propagare nella Inghilterra, dove nasceste, prevalgon di molto in cuore vostro allo spirito di patriottismo: e però non temo di confessarvi, che quanto più mi vado inoltrando nella lettura della Storia Romana del vostro Gibbon, tanto meno mi sembra meritevole di quelle lodi, che io sull'altrui relazione in presenza vostra incautamente gli tributai. A me par di vedere nel Sig. Gibbon uno scrittore per verità elegante ed erudito; ma che ora vergognosamente si contraddice, ora dà per indubitati dei fatti di Storia Ecclesiastica; i quali se non sono falsissimi, sono almeno dubbi, e non bene decisi; e per l'opposto nega ed oscura i meglio autenticati e i più certi, e ciò sempre a danno ed avvilimento del partito Cattolico; mostrando sempre un indicibil dispregio dei Santi Padri, depositari fedeli e sostenitori indefessi di quei venerabili dogmi, che egli malamente conosce, e sfigura. Non è già intenzione mia di tener dietro al Sig. Gibbon in tutti i suoi traviamenti: se io lo facessi, vi stancherebbero le mie riflessioni per la moltitudine e la lunghezza, e vi priverei di quel piacere che si gusta nel rilevare da se medesimo gli sbagli degli uomini, che menan rumore nella Repubblica letteraria. Ne farò adunque quante possan bastare a porre in chiaro l'asserzion mia: e per quel che riguarda la prima parte di essa mi ristringo a S. Atanasio, a Giuliano l'Apostata, ed al carattere generale dei Cristiani dei loro tempi.
Ecco adunque come il Sig. Gibbon parla del primo. L'immortal nome di Atanasio non potrà mai separarsi dalla Dottrina Cattolica della Trinità. Quindi è, che essendo la causa di lui quella della verità, e della giustizia quella, io dico, della verità religiosa, il regno dell'Imperadore Costanzo restò infamato dalla ingiusta persecuzione del grande Arcivescovo intrepido campion della Fede Nicena, ed ospite venerando di Costantino il figlio, il quale colla decenza del suo contegno si conciliò l'affezione del Clero non men che del popolo: e rei pur furono di solenne ingiustizia quelli Ecclesiastici Giudici, che lo condannarono in Tiro.
Or se io dicessi, che noi possiam diffidare delle proteste di rispetto, che quell'istesso Atanasio faceva all'Imperatore Costanzo; che egli in quel modesto equipaggio, solito ad affettarsi dalla politica e dall'orgoglio, faceva le visite Episcopali; che Arsenio era un'immaginaria sua vittima e suo segreto amico; che egli sì abbondante di difese rispetto ad Arsenio medesimo ed al calice, lasciò la grave accusa di aver fatto battere, ed imprigionare sei Vescovi senza risposta; se io mettessi in forse, che la ragione fosse veramente dalla parte di Atanasio: se finalmente decidessi, che la differenza tra homoousion, ed homoiusion essendo quasi invisibile all'occhio Teologico più delicato, Atanasio mostrossi avido di fama ed attaccato dal contagio del fanatismo; neghereste voi mai, che io fossi oppostissimo di sentimento al Sig. Gibbon in riguardo a quel celebre Primate di Egitto? E come negarlo? Asserisce l'Autore, che il Clero deposto sotto Costanzo era Ortodosso, che la dottrina di Atanasio era Cattolica, che i Giudici di lui furono ingiusti; io per lo contrario direi, che buona parte di quella disputa fu più grammaticale che teologica, e che Atanasio fu ben fanatico a sacrificarsi se non per un dittongo, almeno per un vocabolo proibito dal Concilio d'Antiochia. Il Sig. Gibbon afferma, che il contegno di quel Santo era decente, ed attissimo a conciliarsi l'affetto universale: ed io in quel modesto equipaggio ravviserei l'orgoglio, la politica, e l'avidità della fama. Il Sig. Gibbon ripete sovente, che la giustizia e la verità, e per conseguenza la ragione assistevano la causa di Atanasio: io dubiterei se la ragione fosse veramente dalla sua parte: il Sig. Gibbon profonde per Atanasio luminosi titoli di grande, d'immortale, di venerando, io gli darei quelli di finto, di adulatore o di subdolo. Non valuto però molto quell'ultimo, perchè essendo lo stesso, che Venerabile, questo l'Autore lo trova benissimo conciliabile in S. Gregorio Nazianzeno con l'altro di stolto e di calunniatore158. Nell'esporvi la mia ipotesi non ho fatto altra cosa, che trascrivervi letteralmente le parole del Sig. Gibbon, che voi potete riscontrare nel libro. Vi sarà dunque facile il conchiudere, che il Sig. Gibbon è in opposizione con se medesimo.
Dovremo noi credere a questo A. nel primo caso o sibben nel secondo? Io per me voglio credergli assolutamente nel primo; perocchè il carattere, che ivi fa di Atanasio è conforme a quello, che fanno di lui il Tillemont ed i Monaci Benedettini: ed egli stesso m'insegna, che la diligenza del Tillemont e degli Editori Benedettini ha raccolto tutti i fatti ed esaminata ogni difficoltà concernente la vita del grande Atanasio: e mi maraviglio che dimenticatosi di una regola così giusta, tratti Gioviano d'adulatore, empio e stravagante per aver detto celestiali le virtù del S. Arcivescovo, ed averlo chiamato figura della Divinità159, e con una nuova opposizione con se medesimo non ammetta la delicatezza del Baronio, del Valesio, e precisamente del Tillemont nel rigettare l'aneddoto del rifugio di Atanasio in casa della bella vedova Alessandrina, indegno certamente della gravità della Storia Ecclesiastica, ingiurioso alla memoria di un Santo sì illustre, e forse inventato dal livor degli Arriani. Ma che volete aspettarvi di coerente da un Autore, il quale ad onta degli originali ed autentici monumenti, onde confessa esser giustificate le apologie e le lettere ai Monaci di Atanasio ha la stravaganza di dichiararsi di prestarvi minor fede: perchè egli troppo vi apparisce, innocente e troppo assurdi gli avversari di lui? Intanto con questo suo modo di pensare e di scrivere ci fa toccar con mano, come non vi ha assurdo delirio, di cui non sia capace un uomo preoccupato dallo spirito di religioso partito, o di una tolleranza sfrenata. Osservatelo più distintamente in Giuliano l'Apostata.
Già v'immaginerete, che egli debba esser l'Eroe del Sig. Gibbon, ed in sostanza è così. Erano inimitabili, dice egli, le virtù di Giuliano, ed il suo trono era la sede della ragione, della virtù, e forse della vanità, vanità, che il medesimo nostro Critico non si risovvenendo del forse chiama eccessiva.