quattordici batterie fulminarono nel tempo stesso i luoghi meno fortificati; ma nel descrivere una di tali batterie, gli Autori si valgono d'espressioni sì equivoche, che non intendiamo bene, se essa contenesse centotrenta pezzi di cannone, o centotrenta palle. Del rimanente, a malgrado del potere e della solerzia di Maometto, scorgesi l'infanzia dell'arte in quel tempo. Sotto un padrone che calcolava i minuti secondi, il gran cannone non potea trarre che sette volte al giorno100. Il metallo riscaldato scoppiò, sicchè molti cannonieri rimasero morti, e fu ammirata l'abilità di un fonditore che immaginò, per andar contro ad una nuova disgrazia, di versare, dopo ciascuno scoppio, una certa quantità d'olio entro i cannoni.
Le prime palle dei Musulmani lanciate a caso, aveano fatto più strepito che rovina. Mercè soltanto i suggerimenti di un ingegnere cristiano, i Turchi appresero a percotere direttamente i due lati opposti degli angoli salienti d'un baloardo. Per quanto poco destri fossero questi artiglieri, la moltiplicità de' colpi supplì alla poca abilità di addirizzarli, onde gli Ottomani, pervenuti finalmente sino all'orlo della fossa, si accinsero a colmare questa enormissima apertura a fine di procurarsi per traverso alla medesima una strada all'assalto101. Vi gettarono entro e massi e fascinate e tronchi d'alberi, e tal fu l'impeto di quei lavoratori, che i primi trovatisi in riva alla fossa, o i più deboli, vi caddero dentro e vi trovarono sepoltura. Intantochè gli assedianti davano indefessa opera a tale lavoro, la sola speranza di salute per gli assediati stavasi nel cercare di renderli inutili, a lunghi e micidiali scontri esponendosi, e distruggendo la notte tutta l'opera che i soldati di Maometto aveano fatta nella giornata. Ricorreva all'arte delle mine il Sultano; ma oltre alla difficoltà di valersene in un terreno, che era compatta rupe, gli opponeano altrettante contromine i cristiani ingegneri; perchè niuno aveva a que' giorni pensato a colmar di polve quelle vie sotterranee, e a produr così quegli scoppj che fanno saltare in aria le torri e le intere città102. Una circostanza che contraddistinse dagli altri assedj quello di Costantinopoli, si fu l'uso promiscuo dell'artiglieria antica e moderna. Fra mezzo ai metalli ignivomi vedeansi macchine opportune a lanciar sassi e dardi; uno stesso muro soffriva l'urto delle palle e dell'ariete ad un tempo; nè la scoperta della polvere avea fatto dimenticare l'uso del fuoco greco. Rotandosi su i suoi cilindri, avanzava un'immensa torre di legno, mobile arsenale di munizioni da guerra, coperto d'un triplice cuoio. I guerrieri che vi stavano chiusi entro, poteano senza pericolo, per le feritoie della medesima, trarre sugli assediati; la parte anteriore di essa avea tre porte, che davano abilità di sortire e di ritirarsi ai soldati. Una scala interna li conduceva al pianerottolo superiore di essa torre, d'onde poteano col ministerio di carrucole, sollevare una scala che, attaccandosi coll'estremità al baluardo nemico, diveniva un ponte per gli assedianti. Coll'unione di tutti questi diversi modi d'assalto, alcuni de' quali tanto più funesti si fecero ai Greci, perchè non ne aveano veruna cognizione, giunsero finalmente i Turchi a rinversare la torre di S. Romano; però vennero ancora respinti dopo un ostinato combattimento, che la notte interruppe e che divisavano rincominciare all'alba del nuovo giorno con più vigore, e maggiore fiducia di buon successo. Nè questi momenti conceduti alla speranza e al riposo vennero trascurati dalla solerzia dell'Imperatore greco e del genovese Giustiniani, che rimasti tutta la notte su i baloardi, affrettarono tutti que' provvedimenti da cui poteva ancora dipendere il destino della Chiesa e di Costantinopoli. Laonde all'apparire dell'aurora novella, l'impaziente Maometto vide, con istupore ed eguale afflizione, incenerita la sua torre di legno, tornata nel primo stato la fossa, restaurata la torre di S. Romano. Deplorando il mal esito de' concetti disegni, esclamò dimentico della riverenza che al proprio culto dovea: «Trentasettemila Profeti non bastavano a farmi credere, che gl'Infedeli in sì breve tempo avessero eseguito sì immenso lavoro».
La generosità de' Principi cristiani fu languida e tardi arrivò; ma fin dal momento in cui Costantino previde l'assedio della sua Capitale, intavolò negoziati nelle isole dell'Arcipelago, nella Morea e nella Sicilia per ottenerne i soccorsi più indispensabili. Cinque grandi vascelli mercantili103, armati da guerra avrebbero già salpato da Chio nel primo giorno di aprile, se non li avesse trattenuti un ostinato vento di tramontana104. Un di questi portava bandiera imperiale; gli altri quattro, appartenenti ai Genovesi, andavano carichi di frumento e d'orzo, d'olio e di vegetabili, e soprattutto di soldati e marinai pel servigio della Capitale. Finalmente dopo un penoso indugio, spiegaron le vele col favore di un leggier vento australe, che fattosi più gagliardo nel secondo giorno, li portò ben tosto all'Ellesponto e alla Propontide; ma circondata per terra e per mare trovavasi la Capitale del greco Impero; e la squadra turca, situata all'ingresso del Bosforo, terminava a guisa di mezza luna alle due estreme rive per chiudere il passaggio a questi ardimentosi ausiliari, o per lo meno a fin di respingerli. Qualunque leggitore abbia presente alla memoria il quadro geografico di Costantinopoli, comprenderà e ammirerà la magnificenza di un tale spettacolo. I cinque vascelli cristiani procedeano innanzi, in mezzo a giulive acclamazioni, e forzando il ministerio delle vele e de' remi contro una squadra nemica di trecento navigli; i baloardi, il campo, le coste dell'Europa e dell'Asia, vedeansi coperte di spettatori impazienti con inquietudine dell'effetto che questo rilevante soccorso avrebbe prodotto; effetto che a prima vista non avrebbe dovuto sembrare dubbioso. La superiorità de' Turchi era tanta, che si togliea da ogni proporzione col numero de' Cristiani; e certamente, giusta un calcolo ordinario, la moltitudine e il valore de' combattenti gli avrebbe assicurati della vittoria. Cionnullameno l'imperfezione della loro marineria mostrava come questa fosse stata creata d'improvviso dalla volontà del Sovrano, e non nata gradatamente dall'ingegno inventivo della nazione; e giunti anche all'apice della grandezza, i Turchi confessavano che, se Dio avea conceduto ad essi l'Impero della terra, quello del mare rimanea agli Infedeli105; modesta confessione, la cui verità è stata confermata da una sequela dì sconfitte e da un rapido scadimento. Tranne diciotto galee bastantemente forti, il rimanente della squadra era composta di battelli aperti, rozzamente costrutti, mal governati, troppo caricati di combattenti, e sprovveduti di cannone; e poichè il coraggio ne deriva in gran parte dalla conoscenza delle nostre proprie forze, non è maraviglia se i più valorosi giannizzeri tremarono in veggendosi sopra un elemento nuovo per essi. Dalla parte in vece de' Cristiani, veniano governati da piloti abilissimi cinque grandi vascelli pieni di veterani dell'Italia e della Grecia, avvezzi da lungo tempo ai disagi e ai pericoli della navigazione. Intanto che davano opera a calare a fondo, o ad infrangere i deboli legni che impacciavano ad essi il cammino, le loro macchine d'artiglieria spazzavano il mare e versavano fuoco greco su quelle barche ottomane che osavano avvicinarsi per tentar l'arrembaggio; chè i venti e i flutti si chiariscono mai sempre pe' navigatori più abili. I Genovesi salvarono il vascello imperiale contro cui, nella mischia, più numerosa oste infieriva; e gravissima fu la perdita de' Turchi, respinti in due assalti, un più lontano, l'altro ov'erano petto a petto coi Cristiani. Maometto standosi a cavallo in su la piaggia, incoraggiava i Musulmani colla sua voce, con promesse di ricompensa, col timore che egli inspirava, più poderoso sovr'essi che lo stesso timore de' nemici. Il fervore del suo animo, i moti del suo corpo106 sembravano imitare le azioni de' combattenti, e quasi foss'egli il padrone della natura, da niuna tema frenato, facea impotenti sforzi per ispinger nel mare il proprio cavallo. La violenza dei suoi rimproveri, i clamori del campo indussero la squadra turca ad un terzo assalto che fu più funesto ancor de' due primi; al qual proposito citerò, senza poterle prestar molta fede, la testimonianza di Franza, il quale afferma che i Turchi a loro confessione medesima perdettero nella strage di questa giornata più di dodicimila uomini. In somma fuggirono disordinatamente verso le coste dell'Europa e dell'Asia, intanto che la squadra de' Cristiani, in trionfo e immune da danni, procedea lungo il Bosforo, pervenuta a lanciar l'áncora con sicurezza dalla banda interna della catena del porto. Nell'ebbrezza di questa vittoria, sosteneano i Cristiani che il loro braccio era valevole ad annichilare tutto l'esercito dei Turchi. Intanto Balta Ogli, l'ammiraglio, ossia il Capitano-Pascià, ferito in un occhio, traeva da questa circostanza un sollievo coll'accagionarla della perdita della battaglia. Era costui un rinnegato della famiglia de' Principi di Bulgaria, stimabile per meriti militari, se un'abbominevole avarizia non gli avesse contaminati; e, sia d'un solo, o popolare il dispotismo, sotto il governo del medesimo, la disgrazia si ha per prova di delitto.