Alessandro Manzoni

Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2


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della conversione, la cosa sarebbe troppo ita in lungo, so che allora sarebbe stato assai più difficile rendere teatrale e romanzesca quella conversione: so in fine che nella pittura del nostro Manzoni, c'è tanta profondità da ammirare, che non è quasi lecito il mostrare desiderio di quello che manca».

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L'Antologia [n. 116, agosto 1830; pp. 140-142] tornò a parlare de' Promessi Sposi pigliando occasione dalla ristampa che ne fece a Firenze, nel '30, la tipografia Passigli, Borghi e C. in un vol in-8.º e in sei volumetti in-32.º con vignette. Dell'articolo, scritto dal Montani, è notevole questo brano: «Walter Scott, ha già detto qualcuno, va dalla storia al romanzo, Manzoni dal romanzo alla storia. Da questo loro andamento diverso risulta che ciò che nelle composizioni dell'uno forma, per così dire, lo sfondo delle composizioni medesime, in quello dell'altro forma il soggetto principale. Quindi non fa meraviglia ciò che da un anno si va bucinando, e in un giornale assai recente si narra senza mistero, che il Manzoni in uno scritto, che verrà presto alla luce, sul romanzo storico, si separi interamente da Walter Scott. Può egli non separarsene in teorica, quando in pratica ne va tanto lontano?».

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Singolare è questa lettera del Tommaseo al Vieusseux, scritta da Milano il 12 novembre del '26: «Manzoni forse per la primavera vegnente verrà con la famiglia a Firenze… Del resto, se egli venisse a Firenze, vedreste un uomo che dall'assenza di ogni singolarità è reso agli occhi d'ognuno che non gli dissomigli, affatto singolare e mirabile. Una statura comune, un volto allungato, vaiuolato, oscuro, ma impresso di quella bontà che l'ingegno, non che guastarla, rende più sincera e profonda: una voce di modestia e quasi di timidità, cui lo stesso balbettare un poco giunge come un vezzo alle parole, che paiono escir più mature, più desiderate: un vestito dimesso, un piglio semplice, un tuono famigliare, una mite sapienza che irradia per riflessimento tutto ciò che a lui s'avvicina… Questo è l'uomo direste, il cui nome sarà simile di qui a mill'anni, adorato, com'io venero oggi il suo volto. Questo è l'uomo che in ogni via che calcò impresse un'orma indelebile; che ha divinizzata la tragedia, che ha insegnata agl'Italiani la vera via della storia; che ha fatto il romanzo la lettura del Genio e della Virtù; ch'ebbe amici i più buoni del secol suo; che fu pio, semplice, generoso; che trasse il suo genio dal cuore: e potreste aggiungere (questo è forse il maggiore degli encomii) che fu visto più d'una volta piangere sulle sventure degl'infelici».

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Il Rigutini ristampò il vecchio articolo dell'Antologia, in fronte alle Postille [pp. 1-21], ma senza accennare per nulla ai tanti cambiamenti che vi aveva fatto l'autore nell'edizione del '43 ed ai lievi ritocchi di quella del '58.

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Il primo esilio di Nicolò Tommaseo 1834-1839, lettere di lui a Cesare Cantù, Milano, Cogliati, 1904; p. 102.

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Tommaseo N., Studi critici; I, 304-312.

Cfr. Ispirazione e arte o lo scrittore educato dalla società e educatore, studi di Niccolò Tommaseo, Firenze, Felice Le Monnier, 1858; pp. 417-426.

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Tommaseo N. Dizionario estetico, Firenze, Successori Le Monnier, 1867, pp. 622-623.

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Nacque a Novara il 12 febbraio del 1803; si laureò in legge a Pavia; presa la carriera della magistratura, al pane onorato del suo forte Piemonte e de' suoi vecchi Re preferì quello dell'Austria, e morì il 9 ottobre del 1850, consigliere dell'I. e R. Tribunale criminale di Milano.

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Il Visconti fa in margine l'osservazione seguente: «Lascerei come una inezia questo cenno sul Griso. Ha del rettorico o per dir meglio del Tassesco:

Argante, Argante stesso ad un gran urtoDi Rinaldo abbattuto appena è surto.»

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È il famoso Azzecca-garbugli, che prima chiamò Pèttola, poi Duplica. (Ed.)

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Valente. [Postilla del Visconti].

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Quest'episodio è un brano del capitolo III del tomo III. (Ed.)

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Lascerei queste righe, per dare maggiore brevità, e perchè queste acclamazioni sono cosa troppo simile alle altre in cui Lucia fu nominata plaudendo al Cardinale. [Postilla del Visconti].

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Un asilo, caro Alessandro, pare che il Cardinale voglia metterla in monastero a fare il noviziato. [Postilla del Visconti].

88

È un brano del capitolo IV del tomo III. (Ed.)

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Il consiglio chiesto dal Cardinale mi piace, ma assai. Rialza in un modo inaspettato il Conte dopo la sua conversione, lo rende sempre più vivo. Ma bada bene: che il Cardinale aveva ordinato la lettiga subito dopo aver parlato coi preti, e l'ultimo consiglio dev'essere quello del Conte, come il più di peso. Non ti spiacerebbe di soggiungere in quel luogo dopo le parole: Quando ebbe questa certezza, nella quale fu riconfermato dall'opinione d'un altro personaggio, di cui lasceremo per ora che il lettore indovini il nome, Federigo ordinò, ecc.? [Postilla del Visconti].

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Tozzo di pane mi pare troppo da pitocco, direi un pane. [Postilla del Visconti].

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Lascerei e sul suo pericolo, che imbroglia; pare che fosse attualmente in qualche pericolo per parte di Rodrigo. [Postilla del Visconti].

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Di fianco alla presente risposta di Federigo e alle parole del Conte: Ah! la dolcezza, ecc. il Visconti scrisse: «Lascerei questi due punti: non bisogna poi essere prodigo dì riflessioni ascetiche in un Romanzo. Anche per l'edificazione de' lettori – non ridere tu, sebbene io rida di me stesso – è meglio presentare più che si può con disinvoltura le idee Cristiane». (Ed.)

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Leverei la peritanza quasi puerile, per stare alle parole del Ripamonti; vorrei che avesse sempre il Conte nostro qualche cosa di soldatesco. [Postilla del Visconti].

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Leverei implorando, ecc. per la ragione dianzi detta, e perchè il Conte era uomo avvezzo ad agire, e chi è avvezzo ad agire fa addirittura. Doveva beneficare con quella risoluzione con cui dava dapprima de' colpi di spada. [Postilla del Visconti].

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Non sarebbe meglio, di pentimento e di affezione? [Postilla del Visconti].

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È un altro brano del capitolo IV. «La scena del Conte merita un capitolo a parte», scrisse il Visconti in margine al principio dell'episodio; soggiungendo: «In questa porzione del Romanzo giovano, mi pare, i periodi piuttosto brevi: e contenenti un oggetto solo, per quanto si può. Dunque: Capitolo… (quello che sarà). Il Conte del Sagrato era venuto, ecc.». Arrivato poi alle parole: rendevano impossibili, tornò a notare: «Qui finirei il capitolo. Al seguente ci penserai tu, mentre vuoi cangiare, come mi hai detto, il modo di mandare Lucia in quella casa di signori». (Ed.)

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Dal paese di Lucia. (Ed.)

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A cominciare dalle parole: Visitando una di quelle parrocchie, ecc. fino a quelle: dalle zanne del lupo, con cui ha fine questo tratto del Romanzo, il Manzoni diè di frego a ogni cosa, scrivendo in margine: «Invece di questa visita, ecc. sia Don Abbondio che avendo saputo come Donna Prassede cercava una donna di servizio, suggerisca ad Agnese di proporre Lucia; e lo faccia per mostrare interessamento, e per isbrigarsene nello stesso tempo. Agnese vada da Donna Prassede, che villeggia a qualche miglio di là e deve partire all'indomani per Milano. Lucia è accettata. Il Conte e le conseguenze si raccontino nel capitolo IX». (Ed.)

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Lo ribattezzò poi col nome di Don Ferrante. Quello di Valeriano gli fu suggerito dal «gran Valeriano Castiglione», autore dello Statista regnante. (Ed.)

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Divenne poi Donna Prassede. (Ed.)

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È un brano anche questo del capitolo I