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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte II


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io parlarvi di lui, mi fa desiderar più che mai la virtù di quei finissimi artisti della parola, che nelle opere loro sanno come trasfonder se stessi, e si manifestano insigni pittori di ingegni e di animi, per l'invidiato segreto delle caste linee e dei fedeli contorni, e per la magica arte della armonia fra l'omaggio riverente alla verità della storia e l'abbandono del genio ai voli arditi dell'estro.

      Di Silvio Pellico, così grande nella sua umiltà, e la cui vita fu un amore costante, un infinito dolore, avrei potuto allora delinearvi la immagine con mano sicura di storico, con intelletto innamorato di artista; mentre, invece, non possedendo io quella dottrina e quell'arte, dovrò a voi parlarne unicamente col cuore; procurando piuttosto di cogliere fiori (ed oh potessi coglierli tutti!) da quanti più degnamente scrisser di Silvio, per intesserne una corona, da deporre con voi sulla tomba del martire.

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      E Silvio Pellico fu martire veramente. Dal 25 giugno del 1789, in cui vide in Saluzzo la luce, al 31 gennaio 1854, in cui la sua nobile vita si spense in Torino, le nubi del dolore velarono costantemente i suoi giorni; ma il cielo di quell'anima, al di sopra di quelle nubi, si mantenne inalterabilmente sereno, perchè sempre vi rifulse il sole della giustizia, l'astro benefico della fede, il raggio fecondo di amore. I suoi martirj suscitarono i primi palpiti della nostra giovinezza, e, pur cresciuti negli anni, li riandammo pietosamente; come le avventure di Erminia rinarra anche oggi, coi versi del pio Torquato, alle solitudini dei nostri monti il canto commosso dei nostri pastori.

      La vita del Pellico, fra le vite di coloro che maggiormente operarono al risorgimento d'Italia, è una delle più note, non solo fra noi, ma fors'anco in Europa. Il libro delle Prigioni, tradotto in ogni lingua di popol civile, fu uno dei primissimi libri, su cui apprendemmo a meditare e a soffrire; il secondo, sul quale imparammo ad amare ed a piangere; poichè il primo libro, che a noi tutti insegnava questi due sospiri dell'anima, fu il santo cuore materno. Il cuore materno! Ecco, Signori, il principal fondamento al carattere e all'eroismo di Silvio Pellico. Educato in una famiglia di costumi patriarcali e patriottici, ebbe fin dalla sua fanciullezza a sperimentare quanto fossero duri i casi della politica; perchè alla caduta della Monarchia piemontese avevano i Pellico dovuto rifugiarsi sull'Alpi, per non subire le prepotenze di quella strana specie di liberali, che, secondo il loro costume, non consentono agli altri il diritto di pensarla diversamente da loro. E in quei tristi giorni conobbe Silvio anche meglio quale tesoro di virtù si accogliesse nel cuor di sua madre, in cui pareva tutta adunarsi la virtù di quel popolo di Savoia dond'ella veniva. Ai numerosi figliuoli fu coll'integro marito maestra, non solo nei rudimenti della cultura, ma nei buoni principi del vivere, e negli esempj migliori; soprattutto nelle lezioni della sventura, e in quella dignità onde all'uomo di cuore è mestieri di sostenerla.

      Ma, tanto felice nei parenti, fu Silvio altrettanto infelice nella salute; e qui appunto la materna sollecitudine si trovò nel suo regno, ed egli vide quell'angelo di carità assisterlo nelle lunghe tormentose agonie, e, con industrie che solo indovina una madre, strapparlo alla morte, disperato dai medici. Così il concetto di questa donna crebbe ognora più nel suo spirito, come la sua gratitudine; e la riverenza filiale, che in lui rivestì le forme più delicate e gentili, dovè essere la tutrice e la guida di tutti i suoi atti, ed esercitare sull'animo suo una costante efficacia.

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      L'ingegno del Pellico si rivelava sin dai primissimi anni. Toccava appena i due lustri, e già componeva una tragedia: componimento puerile, abbozzato, scorretto, ma che poteva bastare a far in lui presagire il futuro scrittore dell'Erodiade, della Gismonda e della Francesca da Rimini.

      Continuando a studiare sotto la guida del buon Manavella in Torino, dove la famiglia si era, per ragione dell'ufficio paterno, condotta, recitava Silvio co' suoi fratelli e con altri fanciulli commediole, che il buon padre dettava per essi, non senza accento di arte e di verità. Nella piccola Compagnia del teatrino domestico era una fanciullina, Carlotta. La ingenuità delle grazie, la semplicità degli atti, la leggiadria del verginale costume s'impadroniscono del cuore appassionato di Silvio. Già gli splendeva una immagine di donna, tutta affetto e virtù, maestra e consigliera della vita; un'altra gli si affacciava ora di donna, che in voi si trasforma, e che, padrona e schiava del vostro cuore, sorride al vostro destino, ch'è il suo.

      Perchè il Pellico era nato ad amare; e in ogni sua opera, infatti, dei due elementi artistici, il cuore e l'intelletto, il primo sempre e assolutamente prevale. E come il suo cuore palpita di ammirazione e di amore per questa creatura divina, la donna, così per lui nella donna s'impersona la stessa bontà, che è il suo ideale; tanto, o Signori, che egli vi creerà persino una Francesca senza peccato, perchè vuole che l'ideale della donna non mai impallidisca o si offuschi. E questo culto della donna (del quale in Silvio la viva predilezione pei fiori è un delicato riflesso) fu in lui, non soltanto compiacimento d'animo aperto al senso della bellezza, ma istinto altresì di un cuore innamorato del bene.

      La morte, però, troncava questo suo primo amore nascente: la sua Carlottina si spengeva a 15 anni; e se la fede darà a lui la rassegnazione, non potrà ministrargli l'oblio; onde la memoria di questo amore andrà pur essa con altre care memorie a visitare più tardi il povero prigioniero, e l'occuperà malinconicamente; e nell'anniversario della morte di lei, come il Maroncelli ne attesta, una preghiera più fervida dell'usato dirigerà Silvio a questa eletta creatura, che egli già vagheggia beata.

      E quando, trascorsi alcuni anni da questo primo amore infelice, sul punto di affrontare i dolori e le gioie dell'arte, s'incontra nella celebre attrice Marchionni, e scorge crescerle al fianco, delicatissimo fiore, la sorellina Teresa; il poeta osa sognare un'altra volta un futuro conforto, e con l'onesta fanciulla s'illude, incominciando corrispondenza di affetti. Ma indi a poco sente addensarsi la procella sul capo, e anche questo nodo è costretto ad infrangere; e in una lettera, che fu l'ultima, a lei, «Compiangimi, mia buona amica (le scrive), io non sarò mai felice. Ogni speranza di bello avvenire svanisce; e quanto più mi vedo nella impossibilità di superare i crudeli decreti che mi dividon da te, tanto più sento che t'amo, e che senza te la mia vita non ha che amarezza.» Queste parole scriveva dal lago di Como la mattina del 13 ottobre 1820, e poche ore appresso in quel medesimo giorno, venuto Silvio a Milano, era, o Signori, arrestato.

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      Ma non precorriamo gli avvenimenti, e quantunque, ripeto, notissimi, non mi sappiate mal grado se io debbo qui, almeno fugacemente, riandarli.

      Come Alessandro Manzoni, così il Pellico bevve alle sorgenti del dubbio, segnatamente per le suggestioni sinistre di un frate apostata, nella dimora sua di 4 anni a Lione, presso uno zio della madre, e dove diedesi tutto allo studio della letteratura francese. Ma, come il Manzoni, così il Pellico tornò presto a coscienza; e nel 1806 si sentì ricondotto alle dolci memorie della prima età, e restituito d'un tratto al culto dei nostri classici.

      Il genio italico aveva sfolgorato novamente di luce sua propria: il Vico, il Galvani, il Volta, il Beccaria, ed altri sommi, maravigliavano il mondo; sorgevano i due grandi banditori di libertà e di civili virtù, il Parini e l'Alfieri, e si traevano dietro una schiera di valorosi, tra i quali Ugo Foscolo, che pubblicava I Sepolcri. E questo carme sublime parlò con accento ineffabile alla mente di Silvio sulle piagge fiorite della Saona e del Rodano; da quell'istante i suoi studj prendono un nuovo andamento, e risolve di tornare in Italia; vola, infatti, a Milano, dove allora si trova la sua famiglia, e dov'egli può meglio compiere la sua educazione letteraria; divien professore di francese nel Collegio degli Orfani militari, e consacra il resto della giornata alle opere dell'ingegno; conosce il Monti ed il Foscolo, ammira ed ama entrambi, ma il secondo con tutta l'anima sua.

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