Barrili Anton Giulio

La notte del Commendatore


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di alcune piante più umili e meno costose, che tuttavia riuscirono ad abbellire il suo nido.

      –Quando ella tornerà alla sua finestra e guarderà in alto,—pensava lo studente,—non le dispiacerà questo poco di verde.—

      Ma la signora, il giorno dopo, non era più comparsa a quella finestra del secondo piano, nè ad altra del palazzo senza nome. E nemmeno comparve i giorni seguenti, con grande rammarico di lui, che era rimasto più del solito in casa.

      –Che cosa vorrà dire?—domandava egli a sè stesso.—Già, capisco, da questa parte son tutte camere di servizio, e non ci avrà occasione di venirci di sovente. Basta, aspetteremo. È comparsa di sabato, e quest'oggi è martedì; chi sa che sabato non torni?—

      Egli dunque aveva ancora tre giorni buoni da aspettare, quando Nicolino Ariberti si inerpicò sulla vetta del piccolo Sinai. Filippo stava seduto presso la finestra, con un trattato d'osteologia tra le mani, per studiarvi la interna struttura di questo bel mobile che è l'uomo. Sul davanzale aveva un quaderno, nel quale veniva man mano facendo le sue annotazioni, compendio e ricordo di ciò che leggeva. Ho già detto che i libri non erano suoi. Del resto, quegli appunti quotidiani erano un ottimo espediente per fissar meglio in capo le cose lette, e all'uopo per rinfrescar la memoria.

      Ariberti fece un'entrata chiassosa, anzi una vera irruzione, in quel nuovo domicilio dell'amico. Per fermo il nostro Nicolino mirava a far dimenticare il suo tradimento di quella mattina. Ma Filippo, o non ci aveva badato più che tanto, o era magnanimo d'indole e perdonava cosiffatte debolezze agli amici; fatto sta che accolse il nuovo venuto con un sorriso, quantunque gli capitasse ad un'ora un po' incomoda e lo distogliesse dal suo osservatorio.

      –Ma sai che si sta bene qui?—gridò l'Ariberti, dopo aver abbracciato con uno sguardo la camera, dal pavimento al soffitto.

      –Sì, ne sono abbastanza contento.

      –E, come dunque hai potuto dire alla signora Paolina che rimpiangevi il tuo vecchio canile della via Argentieri? Già, capisco; lo avrai fatto per politica…. per complimento….

      –No, ti giuro;—disse Filippo arrossendo;—sulle prime la mi piaceva poco.

      –Ed ora….

      –Ora mi ci sono avvezzato.

      –Avvezzato? Oh, oh! Tu ne parli come faresti d'una prigione. Vediamo un po' la inferriata. Non ce n'è; tu sei libero, padrone padronissimo di allungare il collo fuori del tuo abbaino, a contemplare gli amori dei gatti. Ah, ecco un paese di cristiani! Una corte spaziosa, con scuderia! Ci abita della gente per la quale. Bene, bene, Tu mi diventi un aristocratico, Filippo.

      –Vieni; ti fo vedere i miei libri;—entrò a dire quell'altro, cercando di tirarlo via dalla finestra.

      –Sì, vengo; lasciami dare un'occhiata a questi fiori. Chi si occupa del tuo orto botanico? La padrona o la serva?

      –Io stesso,—rispose Filippo,—che era sulle spine.

      –Come sai, studio medicina, e la botanica…

      –Ah sì, è vero; ma perchè diamine non studiar legge?

      –Caro mio, se tutti gli uomini dovessero averci i medesimi gusti, povero mondo! Del resto, quello dell'avvocato è un mestiere da signori. Io sono un Giovanni Senzaterra, e poco o molto che sia, debbo cercare di guadagnar subito il pane quotidiano.

      –Ah, povero Filippo, non ci pensavo; perdonami.

      –Non c'è bisogno;—soggiunse egli, sorridendo malinconicamente.—Io non arrossisco mica d'esser povero. Penso spesso alla mia condizione, è vero; ma credimi, se non fosse che in questi anni di studi io costerò troppo gravi sacrifizi a mio padre, il pensiero della mia povertà non sarebbe senza una certa allegrezza.

      –Oh, questo, poi….

      –Orbene, e perchè no? Povertà il più delle volte è libertà. Non intendo già che si abbia a morire di fame; che allora si è schiavi del capriccio di tutti. Parlo della povertà di uno che vive lavorando, che non può vivere altrimenti, che ha da passare ogni giorno coll'arte sua per le mani. Qual'è libertà migliore di questa, che ti rende padrone dell'anima tua contro le passioni e contro i vizi, perchè non ti dà tempo per le une e non ti offre materia per gli altri? E poi, dove metti tu la felicità di non aver sopraccapi per le tue rendite, poste in forse da una cattiva annata, o da un diluvio di fallimenti, e insidiate da una o più categorie di persone, che farebbero volentieri a spartire? Vedi; sei tu il tuo cassiere, e non c'è pericolo che tu pigli il volo per Francia o Svizzera; sei anche il proprio intendente, e non ti rubi a man salva; il tuo portiere, e dormi magari coll'uscio aperto, senza paura dei ladri. Metti pure che la tua nave dia nelle secche; se scampi dal naufragio, sei ricco come prima, avevi tutto con te.

      –Scusami;—disse l'Ariberti, che aveva fatto, durante quell'apologia dell'amico, i più brutti versacci del mondo;—ma la tua retorica non mi persuade. La vita è una bella cosa; ma per viverla ci vogliono quattrini. Che cos'è vivere? Essere. Ora, per essere, a questo mondo, bisogna parere.

      –L'accidente prima della sostanza!—esclamò facetamente Filippo Bertone, seguitando l'amico nel campo della filosofia.—Io direi anzi il contrario.

      –Sì, cambia pure a tuo modo,—rispose l'Ariberti, purchè in fondo io —abbia ragione. L'uomo, ti dirò io, non vive solamente di pane. Lo —dice anche un passo delle Scritture. Vedi che ho le autorità dalla —mia. E come si potrebbe vivere di solo pane, con tante belle cose, —create a posta e messe al mondo per noi? E non è un disprezzare —l'opera di Dio, questo non desiderarsi che il pane? Intendo per pane —la vita materiale, la vita vegetativa, mi capisci?

      –Certo;—replicò Filippo Bertone—ma assicurata questa, non hai libera anche la vita contemplativa? Non ti è forse consentito di startene coi tuoi libri, od anche co' tuoi pensieri, a goderti un'ora di pace?

      –E crepi l'avarizia; non è egli vero?—soggiunse ironicamente l'Ariberti.—Come si vede, Filippo mio, che non sei innamorato!

      –Io!… No, certo;—rispose Filippo, reprimendo un sospiro;—non ho ancora avuto tempo.

      –Eh via! Di' piuttosto che non hai avuto l'occasione. Ma incontra una donna come l'ho incontrata io…

      –Quale? La bionda di Dogliani, o la signora Ber…

      –Che! Ti parlo dell'ultima.

      –Ah, c'è dunque un'ultima? A Dogliani o qui?

      –Qui, per l'appunto; non ti ricordi? Ah, è vero, nello scorso inverno ci vedevamo di rado. Ma è colpa tua, sai. Tu vivi sempre nel tuo guscio, come la chiocciola, e allora non c'era caso di vederti mai a teatro.—

      Filippo Bertone diede un'occhiata malinconica al chiodo da cui pendeva il suo venerando giubbone; indi un'occhiata al cielo, come se volesse fare un'offerta a Dio di quel suo capo di vestiario.

      –-Ma sai,—diss'egli poscia, sviando modestamente il discorso,—che tu mi sembri un nuovo Don Giovanni Tenorio! Se la va di questo passo, giungerai presto alle mille e tre.

      –No, questa è proprio l'ultima;—esclamò l'Ariberti con accento di convinzione profonda;—oramai lo sento, non amerò più altra donna. Figurati, amico mio, una vera Giunone.

      –Ah, questa volta abbiamo dato la scalata all'Olimpo.—Conosci Giove?—sei forse entrato nelle sue grazie?

      –No, lo conosco appena, e forse non lo conosco nemmeno. Potrebbe esser lui e non esserlo. Ce ne vedevo tanti, nel palchetto.

      –Ho capito; l'Olimpo era a teatro;—notò Filippo, con quel suo fare malizioso ed ingenuo.—E poi, finita la stagione teatrale…

      –Ne è cominciata un'altra ad un teatro di prosa. I teatri di Torino io li ho girati tutti, e qualche volta tre in una sera, per veder di trovare la mia bella Giunone. In queste corse a teatro c'è tutta la mia storia di cinque o sei mesi. Poi è venuto il mese di studiare, per prepararmi all'esame; poi le vacanze… ed ora… ed ora capirai che mi sapeva mill'anni di rivedere Torino.

      –Per correre sotto le finestre della signora… Giunone.

      –Non so dove abita.

      –Bravo!