nome. Sulle prime non era dentro di me che un pochino di curiosità artistica, o estetica, se ti piace meglio. Non avevo ricevuto dalla sua bellezza che una impressione passeggera, nè più, nè meno di quella che avrebbe potuto far su te. Anche tu, vedendo una bella signora, avrai detto qualche volta a te stesso: «ecco una bella donna», senza bisogno di andare più in là.
–Certamente;—balbettò Filippo, mentre si avvicinava al balcone, col pretesto di strappare due foglie ingiallite ad una rosa delle quattro stagioni;—senza andare più in là.
–Orbene, io che non ci vedevo un pericolo al mondo, guarda oggi e guarda domani, tunfete! ci sono cascato. Innamorato, Filippo mio, innamorato morto. Il guaio si è che, quando me ne avvidi, ero diventato timido come un coniglio. Canzonami, ma la è così, come io te la dico. Ti basti che voltavo gli occhi da un lato, o li piantavo a terra, quando mi pareva di veder volgere i suoi dalla mia parte, e che mi facevo del color della brace, quando per caso il suo binocolo si appuntava su me. All'uscita, ogni sera, facevo il proponimento di fermarmi, per vederla passare. Vuoi credere? Ogni sera mi mancava il coraggio. Vedevo spuntare da un pianerottolo delle scale il lembo della sua veste, e fuggivo. Già, l'anno scorso ero ancora un ragazzo.
–E avrai più coraggio quest'anno?
–Oh sì! l'ho giurato;—rispose solennemente l'Ariberti.—Ho scritto nelle vacanze un migliaio di versi per lei. Sono senza fallo i migliori che ho fatto fin qui. Vuoi sentirne qualcuno?
–Anzi, mi farai un vero regalo.
–Te li dico… Ma, di grazia, lascia un pochino il tuo orto botanico.
–Sì, sì;—disse l'altro, che oramai per quel giorno disperava di vedere la sua bella vicina.
E stette a sentire i versi dell'amico; versi abbastanza belli e più levigati che a quell'età non si usi ancora di farli. Nicolino Ariberti si chiariva in quelle composizioni un divoto seguace dei classici e prometteva (poichè tutti promettiamo qualcosa da giovani) prometteva, dico, alle lettere italiane un nuovo e felice cultore dell'epiteto. La qual cosa, se faceva prova del suo buon gusto letterario, dinotava meno calore d'affetto, e fors'anco d'ispirazione. Almeno, così affermano i critici ed io ripeto. Del resto, da quel profano ch'io sono e mi tengo, so che tra i latini, Ovidio epitetava alla grossa, e Virgilio con giusta misura. Ora, io leggo assai volentieri Virgilio e trovo più calore nel quarto libro dell'Eneide che in tutte le elegie venute dal Ponto. E per venire ai moderni, dove troverete più affetto che nel povero Foscolo? Eppure, che nobil fioritura d'epiteti, giusto Iddio! Ma sono un profano, lo ripeto, e vi dò le mie chiacchiere per quel poco che valgono.
–E questi versi,—disse Filippo Bertone, dopo che li ebbe uditi e lodati,—li farai giungere a lei?
–Spero;—rispose l'Ariberti;—chi sa che non le cadano sott'occhio? Fo conto di stamparli. Si sta fondando in Torino un giornale letterario, artistico, e scientifico, e capirai…
–Ah, bene! E chi ci scrive?
–Io, come puoi figurarti; ma io sono l'ultimo degli ultimi. Ti dirò dunque i nomi degli altri; Ferrero, Vigna, Balestra, il conte Candioli.
–Candioli! Quello sciocco?—non potè trattenersi dallo esclamare Filippo.—E di che cosa scriverà mai, il signor figlio di suo padre?
–Note di viaggi, ricordi parigini…
–Perdinci! E con quel po' di italiano che lo ha fatto passare in proverbio fra tutti gli studenti di rettorica del Piemonte?
–Hai ragione;—disse l'Ariberti ridendo;—ma il conte Candioli scriverà a dirittura in francese.
–Eh, in questo caso,—notò Filippo, chinando la testa—non dico più altro. Temo soltanto una nota diplomatica del governo francese. Ma via, il signor padre è ministro; ci penserà lui.
–Senti;—soggiunse poco dopo l'Ariberti, che era in un momento di tenerezza per Filippo Bertone;—vuoi scriverci anche tu?
–Io? Che cosa potrei scrivere io?
–Ma… quel che vorrai. Di botanica, per esempio. Descrivi magari il tuo orto babilonese. Come ti ho detto, il giornale è anche scientifico e tu saresti proprio la mano di Dio.—
Nicolino Ariberti aveva parlato col cuore sulle labbra, epperciò col desiderio di mettere l'amico Filippo a parte di quel passatempo. Non avrebbe operato diverso, se si fosse trattato di una scampagnata a Moncalieri, o a Superga. Ma poco stante, anzi subito dopo aver fatto l'invito, gli venne in mente la ripulsione, sciocca, se vogliamo, ma profonda, e tale per conseguenza, da non doversi trascurare, che i suoi eleganti compagni sentivano pel giubbone di color tabacco. Era là, appeso alla parete, di rincontro a lui, quel povero giubbone, e certamente ignorava di quanta avversione fossero causa, o pretesto, il suo colore, il suo taglio e la sua antichità venerabile.
Ora, per Nicolino Ariberti, lo accorgersi di aver fatto una papera e il pensare allo scampo, se gli riusciva di trovarlo, furono un punto solo.
–Mi passi i tuoi manoscritti,—soggiunse egli, a modo di conclusione,—ed io li consegno al direttore… che sarà probabilmente il signor conte Candioli. Tu sei modesto, lo so, e non ami farti conoscere. Orbene, c'è rimedio anche a questo; tu ti nascondi sotto uno pseudonimo. Anzi, vedi, mi par meglio così; lo pseudonimo aguzza la curiosità dei lettori e fa anche bene al giornale, perchè, trattandosi di materie scientifiche, la gente si metterà in capo che abbiamo la collaborazione di qualche professore. Dunque, è intesa?
–No; non mi va;—rispose Filippo accigliato.
–Perchè?
–Perchè non amo gli pseudonimi. Lo scrivere in tal modo mi parrebbe un lavorare alla macchia, per aspettare il giudizio del pubblico, pronti a scoprirsi e gridare: ecce, ad sum qui feci, se il lavoro piace, o a sconfessarlo, e a dir corna dell'autore, se quel lavoro è riuscito e giudicato un pasticcio. So bene che su questo argomento si possono dire molte cose pro e contro, e che uno pseudonimo, segnatamente nei giornali, può ammettersi come un nome di guerra. Tuttavia, letterariamente parlando, mi pare che la comodità del soprannome (e metti anche del nome soppresso, come si usa appunto nella più parte dei giornali) aiuta un po' troppo a tirar giù come viene, in quella stessa guisa che la maschera sul volto aiuta a parlare con una libertà a cui non vorrebbe licenziarsi una faccia scoperta. Te l'ho dunque detto, non mi va. Se scriverò qualche cosa lo farò sempre col mio nome, umilissimo, se vuoi, ma schiettamente disposto a pigliarsi il biasimo, come si piglierebbe la lode.
Nicolino Ariberti era sulle spine, e non sapeva più da qual banda voltarsi.
–Del resto, ti ringrazio della profferta;—ripigliò Filippo, con accento malinconico,—ma non potrò scrivere nel nuovo giornale. Questo lusso non è fatto per me. Si perderebbe del tempo, ed io non posso perdere neanche un'ora del mio. Vedi, Ariberti; io dovrò faticar molto per vivere agli studi in Torino, e cercarmi forse qualche occupazione fuori via, per guadagnarmi il diritto di restare. Hai da offrirmi lavoro? Lo accetto, qualunque esso sia. C'è da far l'amanuense? Ho, grazie al cielo, una bella mano di scritto. Far di conti? Ho l'aritmetica sulle dita. Vegliare infermi? Non patisco il sonno. Corregger bozze di stampa? Ho buoni occhi. E poi, non vedo che una cosa; rimanere agli studi. Sono venuto con questa idea. Forse è una vanità pericolosa, fatale, che è nata in capo al mio povero padre; ma ti assicuro che dal canto mio farò ogni sforzo, ogni sacrifizio, perchè il futuro non mi dia una smentita. Entro per la via più difficile; non avrò gioventù; ci vuol pazienza; ed io ne ho quanto occorre. Addio giuochi; addio passatempi; addio lieti indugi (come li chiamava il mio maestro di rettorica) cogli amici e i compagni di scuola; ho rinunziato a tutte queste bellissime cose, pensando alla mia famiglia che soffre, che si priva del necessario per me. Questo, intendiamoci—soggiunse Filippo con una grazia e con una nobiltà che avrebbero fatto onore ad un artista più provetto di lui sul palcoscenico della vita,—non torrà che io ti accolga volentieri quassù. Quando vorrai studiare, o avrai qualche rammarico da sfogare con un amico sincero, vieni liberamente; sarai il benvenuto in questo aereo nido.
–Grazie!—mormorò l'Ariberti, commosso da quella triste schiettezza. E diede frattanto un'occhiata furtiva a quel giubbone di color tabacco, che gli parve risplendere, appiccato alla parete, più glorioso di uno stinco di santo.
–E