Barrili Anton Giulio

La notte del Commendatore


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degli uccellini? Nella nidiata ce n'è sempre uno, venuto su a stento, che è l'ultimo a impennarsi e a volare, quando pure ci riesce. Piccino e balordo ma non per sua colpa, lo chiamano comunemente la cria, Qualche volta il poveretto non vince l'avversa fortuna, e muore nel nido, abbandonato dalla madre, che non ha potuto addestrarlo al volo e che ha fretta di portare via i suoi fratellini, nati tutti vitali. Farò anch'io questa fine? Non lo so; ma mi par di poterti dire che questo nido è fatato; o sarà il mio trampellino, per ispiccare il salto, o sarà la mia tomba.—

      Così parlava Filippo Bertone. Nicolino Ariberti avrebbe voluto dire qualcosa, per consolare l'amico; ma pensò giustamente che quello non aveva bisogno di consolazioni, come non aveva bisogno d'incoraggiamenti. Son rari, ma pure qualche volta si trovano, questi uomini privilegiati dal destino, solitarî sventurati e sereni, che possono dar consiglio altrui, ma non riceverne per sè. Si direbbe che cosiffatti caratteri sfuggono alla legge di compensazione, che fa di tutte le esistenze una catena e di tutte le creature un aiuto scambievole; tanto essi appariscono bastare a sè medesimi, anco nella più umile delle condizioni sociali, e trovare in sè stessi ogni cosa, non esclusi i balsami per le proprie ferite, come per quelle degli altri.

      CAPITOLO V

      Della gloria di Ariberto Ariberti e di qualche sciocchezza ch'ei fece.

      Un mese dopo questi discorsi e gli altri del caffè dell'Aquila, Torino aveva la sua meraviglia, come Rodi, come Efeso, come Tebe, e come altre città ugualmente fortunate nei tempi antichi. Era venuto alla luce il primo numero del giornale La Dora; il più bel saggio d'ibridismo che si vedesse mai nel regno animale. Ah no, scusate, volevo dire nella repubblica letteraria.

      C'era in quel primo numero tutto il banno e l'eribanno della scolaresca del primo anno di legge, con qualche rappresentanza delle altre facoltà. Il programma, intitolato modestamente Nos intentions, era stato scritto dal Ferrero in italiano e voltato in francese dal conte Candioli, che gli aveva dato (giusta la confessione del suo autore) una tournure, una noblesse, un cachet, di cui difettava pur troppo il testo italiano. Il sullodato Candioli aveva poi cominciato la stampa del suo Voyage au pays des rêves, che era il racconto della sua gita a Parigi. Il sullodato Ferrero stampava il primo capitolo de' suoi Tre mesi sull'Arno, nel quale da autore che ama i suoi comodi, egli giungeva a mala pena a Viareggio. Del Balestra c'era una canzone; del Vigna una cicalata intorno agli amori di Tibullo, con citazioni analoghe. E non mancava neppure quello studio critico sui Nibelunghi, che il Vigna aveva tolto per roba da mangiare. L'Ariberti dava fuori una trilogia lirica; nientemeno! La prima parte s'intitolava: Sotto i salici, e cantava amori contadineschi; la seconda: Sotto i pioppi, e cantava amori in villeggiatura; la terza: Sotto i portici, e l'amore, come si vede, da questa terza categoria d'alberi, entrava a dirittura in città, facendo anche una scappatina nella seconda fila di palchi del teatro Regio, per ossequiare la bella marchesa di San Ginesio.

      Venendo ora ai nomi, alcuni firmavano i loro scritti, altri no. Il Candioli, per esempio, si nascondeva dietro un Comte de***; ma trovava il modo di dire cinquanta volte in un giorno che le tre stelle della Dora non avevano altro scopo fuor quello di usar riguardo ad una famiglia qui ne s'était jamais encanaillée dans les lettres.

      Quanto al poeta della trilogia, egli firmava per la prima volta in sua vita; Ariberto Ariberti.

      Com'era andata la faccenda? Nicolino era stato persuaso a sbattezzarsi, da un discorso dell'amico Ferrero.

      –Sentimi;—gli aveva detto costui;—vuoi salire in fama di poeta? Non basta esserlo, bisogna parerlo. Ora, quel tuo nome di Nicolino non è abbastanza poetico; ti dirò anzi schiettamente che non lo è punto. Un poeta ha da avere un bel nome, che i giovani e le donne possano ripetere volentieri. Vedi, per esempio, il Foscolo. Si chiamava Nicolò come te. Nicolò Foscolo! Ti pare che quel nome potesse andare, pel futuro cantor dei Sepolcri? A lui per il primo non parve affatto, poichè incominciò un giorno dal chiamarsi timidamente, e come per via d'esperimento, Nicolò Ugo Foscolo; indi, buttata la parte inutile, trovò la vera armonia del suo nome, «Ugo Foscolo», cinque sillabe che non morranno mai più.—

      Quelle ragioni erano sembrate il nec plus ultra a Nicolino Ariberti, che aveva subito pensato di ribattezzarsi a suo modo. E chi vorrà biasimarlo del suo capriccio innocente, in un mondo che è così largo di perdono a tante altre cose, niente affatto innocenti? Dopo tutto questa di foggiare il nome a somiglianza del casato, è moda antica e prettamente italiana. Per non ricordare che un esempio illustre, citerò Galileo Galilei.

      La comparsa della Dora aveva fatto chiasso. Si era riso un pochino intorno a quella novità di un giornale bilingue; e un certo Messaggiere, che non la perdonava a nessuno, e neanco ai figli de' ministri, aveva posto meritamente que' signorini in canzone. La celia era parsa così grave, che i collaboratori della Dora, raccolti in solenne adunanza al caffè dell'Aquila, avevano lungamente ed altamente disputato, per vedere se non fosse il caso di andare a chiederne ragione al beffardo collega. Fortunatamente per lui, prevalse l'idea di rispondere inchiostro per inchiostro, sebbene colla giunta del sale e del pepe, che doveva, nell'animo loro, esser peggio di un colpo di spada.

      Del resto, a far rimanere questa nel fodero, aveva contribuito largamente la lode che, secondo il conte Candioli, era data nei salotti aristocratici al nuovo giornale. Il avait du premier coup conquis sa place; cosa di cui non era da dubitare anche prima della pubblicazione; ma che doveva sempre dar gusto e vendetta allegra di certi lazzi plebei.

      Soltanto una cosa dava molestia ai collaboratori della Dora e ne amareggiava un pochino il trionfo. Quel francese del Candioli era maledettamente scorretto, ed essi da molte parti avevano udito farne l'appunto. Per contro, il signorino sosteneva che il giornale era tutto quanto scorretto; faute d'un bravo correttore che rivedesse le bozze di stampa. Ariberti gli teneva bordone; un correttore gli parea proprio necessario, attento, di buona volontà, e che si contentasse di poco, per non aggravare il bilancio della Dora. Questa fenice dei correttori il nostro Ariberti l'aveva già in pronto, e, sentendosi sostenuto dal Candioli, ne aveva anche detto il nome.

      Tutti avevano fatto buon viso alla proposta, salvo il Ferrero, la cui gratitudine perseguitava Filippo Bertone fino al punto di non lasciargli guadagnare venti lire al mese. S'intende che Ferrero parlava in nome dell'economia. C'è sempre una ragione onesta, per commettere una bricconata. Che diamine! L'economia insegnava di andare cauti fino a tanto non ci fosse la vendita del giornale in rispondenza delle spese di stampa. Soltanto quando fosse raggiunto quel modestissimo scopo, si sarebbe potuto prendere il correttore, ed anche pagarlo un po' meglio; che quanto a lui lo avrebbe voluto coi fiocchi, dovesse anche costare un centinaio di lire. Frattanto, poichè non potevano spendersi neppure le venti, si lasciasse la proposta in sospeso e ognuno dei collaboratori pensasse a correggere con maggior diligenza le sue bozze, anche a tornarci su due o tre volte.

      Per altro, il conte Candioli non era rimasto persuaso, et pour cause. Nel medesimo giorno egli aveva preso in disparte Nicolino… cioè, no, diciamo d'ora innanzi Ariberto Ariberti.

      –Est-ce que votre ami Berton connait le francais?

      –Sicuramente; il povero giovane sa un po' di tutto, e quel poco lo sa bene, come tutti coloro che hanno dovuto imparare senza maestri.

      –Eh bien, fatelo venire domattina da me; c'intenderemo. Io non ho pazienza a rivedere le mie bozze di stampa. C'est une corvée, et mon état est de ne pas en faire.

      Da questo discorso del Candidi coll'Ariberti ne avvenne che la prosa francese del contino nel secondo quaderno della Dora, uscisse stampata in forma cristiana. Ci si mostravano poi certe frasi, ci si rigiravano certe tournures, che il nobile autore non avea pur sognato di metterci. Ma egli si guardò bene dal protestare; che anzi!..

      –Ce pauvre Berton! mais savez-vouz qi'il a de l'intelligence?—aveva detto egli all'Ariberti in un impeto di entusiasmo.

      In un altro di questi lucidi intervalli, il conte Candioli, che, per ragione della sua povera prosa, non isdegnava di salir qualche volta le scale d'un quinto piano in via Santa Teresa, aveva perfino tentato di far smettere a Filippo il suo venerando giubbone di color tabacco. Sventuratamente non l'aveva pigliata pel suo verso, e si era impuntato ad offrirgli