Federica Cabras

E Non Vissero Felici E Contenti


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      E si addormentarono così, con la luce gialla dell’abat jour, un libro arancione accanto e un gran calore che li invadeva.

      Tornò al presente, e l’assenza di quel calore percepito pochi istanti prima nella sua mente scostante lo ferì tanto da fargli montare la rabbia.

      «Fanculo.» disse, fra sé. Con le lacrime agli occhi le diede la schiena e cercò di dormire.

      Sandi, che quando lui era salito ancora non era totalmente addormentata, percepì la mano di lui vicina al suo viso e sentì l’imprecazione. Immaginò il disagio, la frustrazione dell’uomo. Avrebbe potuto girarsi, posare una mano sulla sua fronte e dirgli che andava tutto bene. Sarebbe stata una bugia, è vero, ma una di quelle menzogne bianche. Invece non fece nulla. Sospirò, piano per non farsi sentire, e si addormentò. Era finita fra loro, bisognava solo prenderne atto.

      2

      Il sole era già alto nel cielo, in quella tiepida mattina di primavera. Sandi si svegliò di soprassalto e guardò accanto a sé. Suo marito era uscito, probabilmente era già a fare jogging. Al suo posto Ted, il loro cagnetto beige, russava sonoramente.

      «Ted? Teddy?» si rivolse a lui la sua padroncina, tentando, invano, di attirare la sua attenzione. Ma dormiva, e sodo anche. Girò il musetto peloso dall’altra parte, e sospirò.

      «Va bene, quando hai voglia scendi…» finì brevemente lei, mentre si stiracchiava e usciva dalle calde coperte.

      Una volta nella sala da pranzo bollì l’acqua e preparò una tisana di the al caramello. Poi si sedette con lo sguardo rivolto verso la finestra che dava sul prato, a pochi metri da lì. Era assorta nei propri pensieri quando il telefono trillò. Si spaventò, posò la tisana rovente e si diresse verso il telefono di casa.

      «Pronto?»

      «Oh, Sandi! Meno male che ti ho trovata…»

      Sua madre. Bene, fantastico anzi. Trovava sempre il momento migliore, il più rilassante, e lo rovinava con le sua ciance inutili.

      «Dimmi, mamma. Però sbrigati, sono pronta a uscire.»

      «Mi dici sempre così! Sciagurata… Una madre ha bisogno di parlare con la propria unica figlia, di tanto in tanto. E mai che tu sia disposta ad ascoltarmi. E se avessi un problema grave? Se stessi morendo?»

      «Mamma, non vivrai per sempre.» concluse, perentoria e secca.

      «E quindi?»

      «E quindi ti seppelliremo, quando morirai. Certo non ti lasceremo a marcire in casa tua, e nemmeno ti imbalsameremo.»

      Sandi era scocciata: possibile che dovesse fare, ogni santa volta, la melodrammatica?

      «Ah, be’ se mi dici così. Io ti ho cresciuta…»

      La figliola prodiga, esasperata, piantò il telefono nel tavolino del soggiorno per poter andare a recuperare la tisana in cucina. “Tanto” si disse “si sta solo lamentando della vita e di me. I suoi due argomenti preferiti. Ne avrà per molto.”

      Ciabattò flebilmente fino alla cucina, prese la tazza della Tour Eiffel – ricordo di Parigi e di quella notte magica, dolce e ardente insieme – e vi soffiò dentro.

      «…come al solito nessuno si cura di me! Ti ho cresciuta, quando quel disgraziato di tuo padre se ne è andato! Pensi sia stato facile pensare a cambiare i tuoi pannolini e a lavorare? Io ero un’attrice! Una bellissima, talentuosa attrice di talento, sai, ne avevo da vendere!»

      «Ah,» riprese Sandi, che nel frattempo aveva colto solo il senso generale di quel monologo infinito «quindi se non sei diventata famosa sarebbe colpa mia e dei pannolini che solevo sporcare? In questo caso, mi devi davvero scusare. Sono stata una figlia orribile; sporcarmi, mangiare, desiderare attenzioni: che ingrata!»

      «Oh, Sandra, non fare la drammatica. Non ho detto questo!»

      «Invece mi pare che tu l’abbia appena fatto. Che poi, perdonami se sbaglio, a quel che so io ti avevano già scartata quando ti venne su la pancia della gravidanza…» asserì poi, non senza una punta di cattiveria.

      «Bene, devo andare. Ciao.» tagliò corto lei.

      Carlotta era stata una donna meravigliosa – come la figlia, d’altronde – ma non aveva avuto molta fortuna né con la carriera né con la famiglia: il suo talento era stato presto smentito da numerosi agenti e l’uomo che all’epoca si portava a letto – e del quale si stava peraltro anche innamorando – aveva tagliato la corda non appena lei aveva pronunciato le parole bebè, culla e biberon. Aveva cresciuto quella figlia non voluta all’insegna dell’egoismo e della noncuranza, non mancando mai di sottolineare la sua frustrazione per quel ruolo, di ragazza madre lavoratrice, che così poco, secondo lei, le si confaceva.

      La ragazzina, dopo le iniziali delusioni, si arrangiò; si creò una vita e sopravvisse, ma in cuor suo ammirava quella donna così elegante, fine, altera al punto che aveva finito per assomigliarle più di quanto avrebbe mai potuto ammettere. Ma adesso per mesi non si vedevano né si sentivano, e a Sandi stava bene così.

      Si mise al PC. Anche quel giorno avrebbe provato a scrivere. Era, in fin dei conti, libera per il resto della giornata. Optò per una protagonista donna: si vantava di conoscere il mondo femminile in ogni sua sfumatura. Sbagliava, ovviamente: conosceva solo il versante cattivo delle donne – quello maligno, malizioso, fatto di inganni e menzogne.

      “E Carola soffiò via il fumo della sigaretta, mentre il cielo si schiariva. Sarebbe, finalmente, tornata...”

      «Dove? Dove deve tornare Carola?», si domandò ad alta voce, spazientita. Non trovò una risposta.

      Che lavoro avrebbe fatto Carola? E perché la sua vita sarebbe stata così particolare? Riuscì a buttare giù, con fatica, 7 pagine e mezzo poi, esausta e svuotata, chiuse il computer. Accadeva sempre questo: trovava un nome, un luogo, una data e una potenziale storia nella sua mente ma poi si stancava; l’entusiasmo cedeva il passo dapprima alla monotonia e poi alla totale indifferenza. A quel punto il file veniva gettato nel cestino e mai più recuperato. Decise di non lanciare, metaforicamente e letteralmente, quel primo contenuto abbozzato in un cestino; magari si sarebbe rivelato utile. Sì, magari.

      3

      Eddie era completamente bagnato. Aveva corso almeno un’ora e mezza. Qualche mese prima aveva sentito una sua collega dire ad un’altra che aveva il sedere moscio e si era arrabbiato e offeso non poco. Lui aveva sempre vantato un fisico asciutto e una forma invidiabile, ma ora aveva i suoi anni. Invece di arrendersi al fatto che il suo sedere non avrebbe certo potuto sfidare le leggi della gravità aveva deciso di iniziare a fare jogging. Le prime volte era stato uno strazio, un trauma. Si fermava, dopo pochi metri di corsa, con il viso stravolto dal colore pallido-cadavere e con un fiatone che si sarebbe sentito dalla regione vicina. Ora aveva una buona media, si fermava di rado e non ansimava più come un moribondo. Fiero del fatto di avere riottenuto un sedere tonico e sodo, passava davanti a quelle megere delle sue colleghe ostentando una camminata sicura e diritta. Quasi sculettava e i loro sguardi erano scioccati.

      Un “don” uscì dalla sua tasca della tuta. Prese il telefono cellulare e lesse il messaggio di Giorgia, la sua collega. Lui era uno dei 16 impiegati di un grosso studio commerciale, e sovente lavorava con lei. Più che altro, lui la guidava. Fresca di studi era stata spedita nel mondo del lavoro; non sapeva nemmeno allacciarsi le scarpe, ma lui la stava istruendo a dovere.

      “Senti, Eddie. Dobbiamo riguardare quella faccenda del signor Consi. È necessario, lo sai, che sia pronta entro le dieci di domattina. Considerando che in ufficio arriviamo alle 9, credo che ci dovremmo vedere questa sera. Io sono libera, tu?”

      Eddie sbuffò. Era una cosa che poteva fare anche una persona da sola. Le aveva già spiegato che l’avrebbe potuto fare da solo, ma lei aveva insistito. E ora si ritrovavano a doversi vedere di domenica sera. Non ci sarebbe stato niente di male se questa domanda gliela avesse fatta Stefano, o Sergio. Ma lei. Lei era bella, giovane, profumata. Lo vedeva