Federico Montuschi

Due. Dispari


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modem».

      «Sì, sì, sono arrivate, gliele ho lasciate nel primo cassetto».

      «Aprile subito e controlla se mi fanno pagare ancora il modem».

      «Aspetti un attimo che le vado a prendere».

      Lo Slavo lasciò la cornetta sul tavolo - l’ufficio dell’ispettore non era dotato di cordless, troppo costoso per l’utilizzo che ne faceva - e a passo svelto raggiunse la scrivania di Castillo, aprì il primo cassetto, estrasse la bolletta e tornò al telefono. «Eccomi. Allora, aspetti un attimo che verifico».

      «Dai, che fra un po’ devo fare il sonnellino del mattino, sennò come faccio a guarire?».

      A Castillo parve di vedere il mezzo sorriso che comparve sulle labbra dello Slavo.

      «Mmm… direi di sì, ci stanno ancora addebitando il canone del modem. Seicento novanta colon, capo».

      «Ma come? Non avevi disdetto il contratto il mese scorso? Già siamo in un bel periodo di vacche magre, se poi spendiamo per cose che non ci servono dove finiremo? Maledetti quelli di Telefonica!».

      «Sì, sì, capo, avevo disdetto, avevo disdetto, stia calmo. Più tardi sento io Telefonica, vedrà che sistemo tutto. E poi, capo, il fatto che nel 2015 Internet non ci serva secondo me è tutto da dimostrare…».

      «Facile a dirsi, per te che non paghi» ringhiò Castillo, interrompendo bruscamente lo Slavo, che sembrò non farci caso.

      Conosceva l’ispettore e la sua indole bonaria da quasi un anno e mezzo, ormai, e cioè da quando una tiepida mattina di Gennaio, poche settimane dopo essere arrivato a Burgos ed essersi installato nella Locanda Hermosa, sbirciando di passaggio l’interno dell’ufficio di Castillo e trovandolo particolarmente in disordine, si propose all’ispettore per dargli una mano nelle faccende operative.

      Altro non sapeva fare, lo Slavo, ma aveva voglia di ricominciare la sua vita in quella nuova realtà, anche partendo dal basso.

      Castillo aveva accettato, specificando che non gli avrebbe dato un salario fisso, considerate le ristrettezze economiche in cui versava; lo Slavo aveva accettato senza lamentarsi, visto che era arrivato dall’Italia con un imponente carico di contanti, figli della sua vita precedente, che da una stima grossolana gli sarebbero comunque bastati per almeno cinquant’anni di vita in Costarica.

      Lo Slavo riprese con tranquillità la conversazione telefonica interrotta dal burbero intervento dell’ispettore.

      «Piuttosto, ispettore, le volevo dire che questa mattina è passato un signore chiedendo di lei. Diceva che gli avrebbe fatto piacere conoscerla».

      «E chi era?».

      «Non lo so. È rimasto fuori dalla porta, aveva una sciarpa che gli copriva la bocca e gli occhiali scuri. In testa mi sembra portasse una specie di basco, o qualcosa di simile. È stata veramente una questione di attimi, appena gli ho detto che lei aveva la febbre ha girato i tacchi ed è sparito, dopo avermi squadrato da capo a piedi. Non mi ha messo molto a mio agio, sinceramente».

      «Beh, se dovesse tornare digli che mi può chiamare a casa, senza problemi. Vuoi mai che ci sia finalmente qualcuno che ha bisogno di noi per risolvere un caso serio, invece delle solite baggianate. E ora metti giù e precipitati da Telefonica, chiarisci la questione del modem e fatti stornare l’addebito in fattura, ok?».

      «Sì, capo, ok, tranquillo, ci penso io. Buona giornata, ci sentiamo domani!».

      Ma lo Slavo sapeva che la telefonata non poteva terminare in quel modo.

      Effettivamente Castillo non gli diede il tempo di riattaccare.

      «Dove credi di andare, furfante?».

      Lo Slavo sbuffò, non prima di aver allontanato la cornetta dalla bocca. La voce dell’ispettore arrivò puntuale:

       Relax, said the night man,

       We are programmed to receive! You can check out any time you like... but you can never leave!

      «Facile, capo… Hotel California, Eagles».

      «Anno?».

      «1976».

      «Bravo ragazzo. Ti trovo sempre ben preparato, mi fa piacere».

      «Già. Grazie capo. A domani, si rimetta in fretta, mi raccomando».

      Click.

      Click.

      A Castillo piaceva mettere alla prova lo Slavo sul rock.

      Per lui era un segno di affetto (era una passione condivisa) e, in più, lo faceva sentire ancora giovane, illusione quotidianamente cancellata dallo specchio nel momento più impietoso della giornata, quello del primo mattino, col suo corredo di barba ispida e occhi pesti.

      Lo Slavo stava al gioco, a volte divertito, a volte rassegnato.

      In fin dei conti, l’ispettore era per lui il primo punto di riferimento importante, in quella terra straniera.

      Castillo riattaccò il telefono, stanco come se avesse corso la maratona di San José, e si abbandonò a un profondo sonno ristoratore, cullato dal morbido materasso e avvolto nella coperta fino al mento, proprio come quando era bambino.

      ***

      Lo Slavo era atterrato all’aeroporto Juan Santamaria di San José, Costarica, una sera di Dicembre del 2013.

      Aveva da poco superato i trent’anni e proveniva da Milano, dove si era lasciato alle spalle un omicidio, una malattia mentale vinta grazie a cure costose e un’identità balorda, tutti elementi superati grazie a un nuovo passaporto (falso) e, soprattutto, a un nuovo portafogli (pieno).

      Viaggiava carico di soldi provenienti da un traffico d’armi nato in Croazia, qualche mese prima, al quale aveva partecipato quasi per caso, ma che gli aveva fruttato un bel gruzzolo di contanti, tenuti ben nascosti nel doppio fondo del bagaglio imbarcato sul volo intercontinentale Milano - San José.

      Sapeva di rischiare, alla dogana, con quel carico di soldi nascosti, ma aveva confidato - non senza brividi - nelle maglie larghe dei controlli a campione svolti dalla polizia costaricana sui bagagli in ingresso.

      Gli era toccata la sorte di non avere la valigia ispezionata e, superato anche il controllo dei documenti, aveva tirato un sospiro di sollievo, rendendosi conto proprio in quel momento che la fuga dal proprio torbido passato si era realmente concretizzata.

      Fuori pioveva, una pioggia fine ma costante, fastidiosa, che gli penetrava prima nell’anima che nelle ossa.

      Uscendo dall’aeroporto, si era infilato nel primo taxi disponibile e, in uno spagnolo un po’ stentato, ma comunque dignitoso, aveva chiesto al tassista di portarlo al quartiere italiano.

      Il tassista, un tipo basso e sudato, con un mozzicone di sigaretta appeso alle labbra, lo aveva guardato strano.

      Quel ragazzone biondo, alto, muscoloso, con la camicia a quadri e i Ray-Ban appoggiati alla fronte, nonostante fuori il buio avesse già abbracciato le stradine mal illuminate nella zona circostante l’aeroporto, gli ricordava il personaggio di un videogioco che lo aveva accompagnato anni addietro, ai tempi della scuola superiore.

      Duke Nukem, se non ricordava male.

      Il ragazzo viaggiava con un solo bagaglio e non smetteva di guardarsi in giro con occhi da furetto, che si spostavano con incredibile rapidità da destra a sinistra, mentre il capo si manteneva immobile.

      «Non esiste un quartiere italiano a San José, signore» aveva sentenziato il tassista, senza girarsi.

      Dal sedile posteriore non era giunto alcun commento.

      Incerto sul da farsi, il tassista era rimasto a osservare nello specchietto retrovisore la reazione del ragazzo.

      Nulla.

      Nessun movimento di muscoli facciali, nessuna reazione emotiva.

      Nessun tick nervoso.