Морган Райс

Destino Di Draghi


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e le guance alte e ben delineate, un naso piccolo ricoperto di lentiggini e le labbra carnose. La fronte era ampia e regale, e i suoi meravigliosi capelli biondi fuoriuscivano dalla cuffietta.

      Lei lo guardò, solo per un istante, e i suoi grandi e meravigliosi occhi verdi a forma di mandorla, che cangiavano alla luce, passando al blu cristallino e poi ancora al verde, lo immobilizzarono dov’era. Erec si stupì rendendosi conto che era ancora più incantato da lei ora di quanto lo fosse stato quando l’aveva vista per la prima volta.

      Dietro di lei ricomparve anche il locandiere, accigliato, con il naso che ancora colava sangue. La ragazza avanzò esitante, circondata da quelle donne più vecchie, avvicinandosi ad Erec e inchinandosi dinnanzi a lui. Erec si alzò e si portò davanti a lei, e così fecero anche gli altri del seguito del Duca.

      “Mio signore,” disse lei con voce vellutata e dolce, riempiendo il cuore di Erec. “La prego di dirmi cosa ho fatto per offenderla. Non so cosa sia successo, ma chiedo scusa per qualsiasi cosa io possa aver fatto in sua presenza alla corte del Duca.”

      Erec sorrise. Le sue parole, il suo modo di parlare, il suono della sua voce: tutto questo lo faceva sentire come rinato. Avrebbe voluto che lei non smettesse mai di parlare.

      Erec allungò un braccio e le toccò il mento con una mano, sollevandolo affinché quegli occhi gentili incontrassero i suoi. Il cuore gli batteva forte mentre la guardava negli occhi. Era come perdersi in un mare blu.

      “Mia signora, non hai fatto nulla di offensivo. Non penso che tu potresti mai fare nulla in grado di offendere. Non sono qui per motivi di offesa, ma per amore. Da quando ti ho vista non sono più stato capace di pensare a nient’altro.”

      La ragazza apparve sconvolta, e subito abbassò lo sguardo al terreno, sbattendo le palpebre diverse volte. Si contorse le mani, nervosa, sopraffatta dalla situazione. Era evidente che non vi era abituata.

      “Ti prego, mia signora, di dirmi come ti chiami.”

      “Alistair,” rispose lei umilmente.

      “Alistair,” ripeté Erec. Era il nome più bello che avesse mai udito.

      “Ma non vedo a cosa possa servirle saperlo,” aggiunse lei sottovoce, sempre guardando il pavimento. “Voi siete un Lord. E io non sono che una serva.”

      “La mia serva, per essere precisi,” disse il locandiere, facendo un passo avanti, arcigno. “È vincolata a me. Ha firmato un contratto, anni fa. Ha promesso sette anni. In cambio le dò cibo e alloggio. È qui da tre anni. Quindi potete vedere che è tutta una perdita di tempo. È mia. La possiedo. Non me la porterete via. È mia. Avete capito?”

      Erec provava per quel locandiere un odio mai provato per altri uomini. Da una parte avrebbe voluto sguainare la sua spada e colpirlo dritto al cuore per farla finita. Ma per quanto quell’uomo se lo meritasse, Erec non aveva intenzione di infrangere la legge del Re. Del resto le sue azioni si riflettevano sul Re.

      “La legge del Re è la legge del Re,” disse Erec all’uomo, con tono fermo. “Non ho intenzione di infrangerla. Detto questo, domani avranno inizio i tornei. E sono autorizzato, come ogni altro uomo, a scegliere la mia sposa. E sia detto qui ed ora che la mia scelta è Alistair.”

      Un sussultò scorse per la stanza, mentre tutti si voltavano a guardarsi l’un l’altro, scioccati.

      “Cioè,” aggiunse Erec, “se lei acconsente.”

      Erec guardò Alistair, il cuore che gli batteva nel petto, mentre lei teneva lo sguardo al pavimento. Poteva vedere che stava arrossendo.

      “Lo consenti, mia signora?” le chiese.

      Tutti fecero silenzio.

      “Mio signore,” disse lei con dolcezza, “tu non sai chi io sia, o da dove io venga, o perché io sia qui. E temo ci siano cose che non posso raccontarti.”

      Erec la fissò confuso.

      “Perché non puoi raccontarmele?”

      “Non ho mai raccontato niente a nessuno dal mio arrivo. Ho fatto un giuramento.”

      “Ma perché?” insistette lui, curioso.

      Ma Alistair rimase con gli occhi bassi, in silenzio.

      “È vero,” si intromise una delle altre servitrici. “Questa qui non ci ha mai raccontato chi è. O perché si trova qui. Non vuole dircelo. Abbiamo provato per anni a convincerla.”

      Erec si sentiva profondamente confuso da Alistair, ma questo non faceva che accrescere il mistero che aleggiava attorno a lei.

      “Se non posso sapere chi sei, allora non lo voglio sapere,” disse Erec. “Rispetto il tuo giuramento. Ma questo non cambia i miei sentimenti per te. Mia signora, chiunque tu sia, se dovessi vincere questi tornei, allora ti sceglierò come mio premio. Tu fra tutte le donne di questo regno. Te lo chiedo di nuovo: acconsenti?”

      Alistair tenne gli occhi fissi al terreno, e mentre Erec la guardava, vide delle lacrime scorrerle lungo le guance.

      Improvvisamente lei si voltò e fuggì dalla stanza, correndo fuori e chiudendosi la porta alle spalle.

      Erec rimase lì insieme agli altri in un silenzio di sorpresa. Non aveva idea di come interpretare quella reazione.

      “Allora lo vedi che stai sprecando il tuo tempo, e il mio?” disse il locandiere. “Ha detto di no. Andatevene quindi.”

      Erec gli lanciò uno sguardo torvo.

      “Non ha detto di no,” si intromise Brandt. “Non ha proprio risposto.”

      “Ha il diritto di prendersi il suo tempo,” disse Erec in sua difesa. “Del resto ci sono molte considerazioni da fare. Neanche lei mi conosce.”

      Erec rimase lì, dibattuto sul da farsi.

      “Resterò qui questa notte,” annunciò alla fine. “Mi darai una stanza per la notte, nello stesso corridoio della sua. Domani mattina, prima che il torneo abbia inizio, glielo chiederò di nuovo. Se acconsentirà, e se vincerò, sarà la mia sposa. Se andrà così, ripagherò la sua servitù da voi e partiremo insieme da questo luogo.”

      Era evidente che l’oste non voleva Erec sotto il suo tetto, ma non osò dire nulla. Si voltò e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.

      “Sei sicuro di voler rimanere qui?” chiese il Duca. “Torna al castello con noi.”

      Erec annuì con estrema serietà.

      “Non sono mai stato tanto sicuro di qualcosa in vita mia.”

      CAPITOLO OTTO

      Thor precipitò fendendo l’aria, tuffandosi di testa nelle acque turbolente del Mare del Fuoco. Vi sprofondò immergendosi totalmente, sorpreso dal fatto che l’acqua fosse calda.

      Al di sotto della superficie Thor aprì un attimo gli occhi, pentendosene all’istante. Ebbe la fuggevole visione di strane e orribili creature marine, alcune grandi altre piccole, con musi insoliti e grotteschi. Era un oceano infestato. Thor pregò che non lo attaccassero prima che potesse raggiungere la barca a remi mettendosi in salvo.

      Risalì in superficie boccheggiando e si guardò subito attorno alla ricerca del ragazzo che stava annegando. Lo scorse giusto in tempo: si agitava mentre affondava e se fosse rimasto lì ancora qualche momento sarebbe sicuramente annegato.

      Thor gli si avvicinò e lo afferrò da dietro prendendolo da sotto le spalle, poi continuò a nuotare con lui tenendogli la testa sopra la superficie dell’acqua come la sua. Thor udì un guaito e un lamento, e quando si voltò si stupì di vedere Krohn: doveva aver saltato dietro di lui. Il leopardo gli nuotava accanto, spruzzando Thor di acqua e gemendo. Thor era straziato dal fatto che Krohn si dovesse trovare in una situazione così pericolosa a causa sua, ma aveva le mani occupate e c’era ben poco che potesse fare.

      Cercò di non guardarsi in giro, di non osservare quelle acque vorticanti e rosse e di non badare alle strane creature che affioravano e poi scomparivano tutt’attorno a lui. Un’orrenda creatura, viola e con quattro zampe e due teste, comparve accanto a lui, gli soffiò e poi