per la splendida luce del sole e il calore della brezza. Si tolse il mantello, il mantello di suo padre, e lo gettò a terra. Faceva troppo caldo, e non voleva più indossarlo.
Corse al parapetto e si aggrappò al muro di petra, ancora col fiato lungo, osservando la corte sotto di lui. Poteva vedere la folla infinita che usciva dal castello. Stavano lasciando al cerimonia. La sua cerimonia. Poteva percepire il loro disappunto anche da lassù. Sembravano così piccoli. Era stupito che fossero tutti sotto il suo controllo.
Ma per quanto lo sarebbero stati?
“La regalità è una cosa strana,” disse una voce antica.
Gareth si voltò di scatto e vide con sorpresa che Argon si trovava lì, a pochi passi da lui, con indosso un mantello bianco con il cappuccio e il suo bastone in mano. Lo fissava con un sorriso agli angoli della bocca, sebbene i suoi occhi fossero tutt’altro che ridenti. Brillavano, lo perforavano e lo innervosivano. Vedevano troppo.
C’erano così tante cose che Gareth avrebbe voluto dire ad Argon, che avrebbe voluto chiedergli. Ma ora che aveva fallito nel sollevare la spada, non riusciva a ricordarsene neanche una.
“Perché non me l’hai detto?” piagnucolò Gareth con la voce carica di disperazione. “Avresti potuto dirmi che non sarei riuscito a sollevarla. Avresti potuto risparmiarmi la vergogna.”
“E perché avrei dovuto farlo?” chiese Argon.
Gareth si accigliò.
“Non sei un vero consigliere del Re,” disse. “A mio padre avresti dato il consiglio giusto, ma con me non l’hai fatto.”
“Forse lui meritava consigli giusti,” rispose Argon.
Gareth si infuriò ancor più. Odiava quell’uomo. E lo biasimava.
“Non ti voglio in mezzo ai piedi,” gli disse. “Non so perché mio padre ti abbia assoldato, ma io non ti voglio nella Corte del Re.”
Argon rise, una risata vuota e spaventosa.
“Tuo padre non mi ha assoldato, stupido ragazzo,” disse. “E neanche suo padre prima di lui. Era destino che io fossi qui. Sarebbe più corretto dire che io ho assoldato loro.”
Argon fece improvvisamente un passo avanti, sembrava che stesse guardando Gareth nell’anima.
“Si può dire lo stesso di te?” chiese Argon. “È destino che tu sia qui?”
Le sue parole colpirono Gareth e gli fecero scorrere un brivido lungo il corpo. Era proprio la cosa che Gareth si stava chiedendo. Si chiese se si trattasse di una minaccia.
“Colui che ottiene il regno con il sangue, governerà nel sangue” sentenziò Argon, e dette queste parole si voltò di scatto e si incamminò per andarsene.
“Aspetta!” gridò Gareth, non più desideroso che se ne andasse, ma piuttosto bisognoso di risposte. “Cosa intendi dire?”
Gareth non poteva fare a meno di percepire che Argon gli stesse mandando un messaggio, che gli stesse dicendo che non avrebbe regnato a lungo. Ora doveva sapere se era proprio questo che intendeva dire.
Gareth lo rincorse, ma proprio mentre gli si stava avvicinando, Argon scomparve davanti ai suoi occhi.
Gareth si voltò, si guardò attorno ma non vide nulla. Udì solo una risata vuota che risuonava da qualche parte, sospesa nell’aria.
“Argon!” gridò.
Si voltò di nuovo, guardò verso il cielo cadendo su un ginocchio e buttando indietro la testa. Quindi strillò: “ARGON!”
CAPITOLO SETTE
Erec camminava insieme al Duca, a Brandt e a una decina di uomini del Duca percorrendo i vicoli intricati di Savaria, con la folla che cresceva man mano che loro procedevano, diretti verso la casa della ragazza. Erec aveva insistito per poterla incontrare senza ulteriori esitazioni e il Duca aveva voluto fargli strada personalmente. E ovunque andasse il Duca, la gente lo seguiva. Erec si guardò attorno scrutando la corposa e crescente brigata e si sentiva imbarazzato rendendosi conto che sarebbe giunto di fronte alla dimora della ragazza con decine di persone al seguito.
Da quando l’aveva vista, Erec non era stato capace di pensare ad altro. Si chiedeva chi fosse quella giovane dall’aspetto così nobile che lavorava come servitrice alla corte del Duca. Perché era fuggita da lui così frettolosamente? Perché era successo che, dopo tutti quegli anni e con tutte le donne di alto lignaggio che aveva incontrato, proprio quella gli avesse rapito il cuore?
Avendo frequentato le famiglie reali per tutta la vita, essendo figlio di un re lui stesso, Erec era in grado di riconoscere qualsiasi membro di una famiglia reale all’istante. E dal primo momento in cui l’aveva vista aveva avuto la sensazione che appartenesse a un livello molto più elevato di quello che apparentemente ricopriva. Bruciava dalla curiosità di sapere chi fosse, da dove venisse e cosa ci facesse lì. Aveva bisogno di un’altra occasione di vederla, di vedere se si era immaginato tutto o se le cose erano veramente così.
“I miei servitori dicono che vive alla periferia della città,” spiegò il Duca mentre camminavano. Mentre procedevano la gente da ogni parte della strada apriva le finestre e guardava verso il basso, tutti sorpresi per la presenza del Duca e il suo seguito in strade così comuni.
“Pare sia la servitrice di un oste. Nessuno sa nulla delle sue origini o da dove venga. Si sa solo che un giorno è giunta nella nostra città ed è diventata una servitrice vincolata contrattualmente per questo locandiere. Il suo passato è un mistero.”
Svoltarono tutti in un’altra strada laterale. I ciottoli sotto i loro piedi divennero più irregolari, le piccole abitazioni più vicine l’una all’altra e dall’aspetto sempre più fatiscente man mano che avanzavano. Il Duca si schiarì la voce.
“L’ho assoldata come servitrice presso la mia corte per un’occasione speciale. È una persona tranquilla e se ne sta sulle sue. Nessuno sa molto di lei. Erec,” disse infine il Duca appoggiandogli una mano sul polso, “sei certo di quello che stai facendo? Questa donna, chiunque lei sia, è semplicemente una paesana come un’altra. Tu potresti scegliere qualsiasi altra donna del regno.”
Erec ricambiò lo sguardo con pari intensità.
“Devo rivedere quella ragazza. Non ha importanza chi lei sia.”
Il Duca scosse la testa con disapprovazione, e continuarono tutti a camminare, svoltando tra una strada e l’altra e percorrendo vicoli intricati e stretti. Mentre procedevano, quel quartiere di Savaria diventava sempre più squallido, le strade si riempivano di ubriachi, erano piene di sporcizia, polli e cani randagi che gironzolavano. Passarono di taverna in taverna, le grida degli avventori si udivano nelle strade. Alcuni beoni passarono loro davanti con passo malfermo e mentre iniziava a calare la sera vennero accese alcune torce.
“Fate strada al Duca!” gridò la guardia che stava a capo della spedizione, avanzando e addirittura spingendo da parte alcuni ubriaconi. Da ogni parte della strada diversi brutti ceffi si facevano da parte e guardavano, stupiti, mentre il Duca passava con Erec accanto.
Infine giunsero a una piccola e umile taverna, fatta di stucco e ricoperta da un tetto spiovente in ardesia. Aveva l’aspetto di poter ospitare al massimo una cinquantina di avventori al piano di sotto, e aveva forse qualche stanza di sopra. La porta era sbilenca, c’era una finestra rotta e la lampada d’ingresso pendeva storta, la torcia baluginante, la cera troppo bassa. Grida di ubriachi trapelavano dalle finestre. Tutti si fermarono di fronte alla porta.
Come poteva una ragazza tanto raffinata lavorare in un luogo come quello? si chiedeva Erec, disgustato, mentre ascoltava le grida e le burle che provenivano dall’interno. Il cuore gli si spezzò mentre formulava quel pensiero, mentre pensava all’oltraggio che lei doveva per certo soffrire in un luogo come quello. Non è giusto, pensò. Si sentiva determinato a salvarla da tutto ciò.
“Perché te ne vieni nel posto peggiore per trovare una moglie?” gli chiese il Duca voltandosi verso Erec.
Anche Brandt si voltò verso di lui.
“Ultima possibilità,