a segnare dolorosamente la guancia di Gwen, quando improvvisamente cambiò direzione: l’uomo strillò, lasciò cadere il pugnale e sollevò le mani. Gwen vide un chiaro bagliore bianco nel cielo, il sole che splendeva dietro ai rami, e mentre Estofele volava via capì, comprese all’istante che era stato suo padre a mandare il falco.
Non sprecò altro tempo. Ruotò su se stessa, si piegò indietro e, come i sui allenatori le avevano insegnato, diede all’uomo un forte calcio nel plesso solare, prendendo la mira alla perfezione con i piedi nudi. Lui cadde su un fianco, sentendo la forza delle sue gambe che avevano diretto il calcio alla perfezione contro di lui. Le era stato inculcato in testa fin da piccola che non c’era bisogno di essere forti per difendersi da un aggressore. Bastava usare i muscoli più forti, le cosce. E mirare con precisione.
Mentre l’uomo stava lì accasciato, lei si fece avanti, lo afferrò per i capelli e sollevò un ginocchio, di nuovo con perfetta precisione, e lo colpì esattamente sul setto nasale.
Udì uno scricchiolio soddisfacente e sentì il sangue caldo che sgorgava riversandosi sulla sua gamba. Quando l’uomo si riaccasciò a terra ebbe la certezza di avergli rotto il naso.
Sapeva che avrebbe dovuto finirlo completamente, prendere quel pugnale e conficcarglielo nel cuore.
Ma rimanendo lì, nuda, il suo primo istinto fu quello di rivestirsi e andarsene da lì. Non voleva macchiarsi le mani del suo sangue, per quanto quell’uomo lo meritasse.
Quindi prese il pugnale, lo gettò nell’acqua e si avvolse i vestiti attorno al corpo. Si preparò a fuggire, ma prima di farlo si voltò e gli diede il calcio più forte che poté all’inguine.
L’uomo urlò di dolore e si raggomitolò come un animale ferito.
Gwen tremava dentro di sé, avvertendo quanto fosse stata vicina a essere uccisa, o almeno mutilata. Sentiva il taglio che le bruciava sulla guancia, e si rese conto che probabilmente ne avrebbe portato la cicatrice, sebbene leggera. Si sentiva traumatizzata. Ma non lo diede a vedere. Perché allo stesso tempo sentiva anche una nuova forza che le cresceva dentro, la forza di suo padre, di sette generazioni di re MacGil. E per la prima volta si rese conto che anche lei era forte. Forte quanto i suoi fratelli. Forte quanto ciascuno di loro.
Prima di girarsi e andarsene si chinò verso l’uomo sufficientemente vicino perché potesse sentirla tra i suoi gemiti.
“Riavvicinati a me,” gli ringhiò contro, “e ti ucciderò con le mie mani.”
CAPITOLO DIECI
Thor si sentì risucchiare sott’acqua, consapevole che in pochi istanti sarebbe stato trascinato in profondità e sarebbe annegato, sempre che non fosse stato prima mangiato vivo. Pregò più intensamente che poté.
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