partita per un viaggio, ci sentiremo al mio ritorno.
Seguito dal tono che annunciava l’inizio delle registrazioni.
Erano ormai passati tanti anni dal giorno della mia ultima attesa in coda al check-in nell’aeroporto J.F.K. L’ultima volta che avvenne, fu per un viaggio organizzato da mia madre, per farmi riesaminare la testa da uno psicologo che operava in una località che non ricordo, al confine con il Messico, da lei considerato molto bravo e sicuramente in grado di porre fine al mio “problema”. Ovviamente non fu così perché io non ho mai vissuto la mia situazione come un problema. Il tempo scorreva lento. I miei occhi erano distratti dalle lancette dell’orologio che parevano incollate, immobilizzate sempre nella stessa posizione, piuttosto che dalla gente che mi precedeva o mi seguiva in coda. Osservavo tuttavia le persone camminare velocemente, quasi correndo, mentre si trascinavano dietro le grosse e pesanti valige a rotelle. Questa gente era avvezza a tali ritmi di vita, s’intuiva facilmente, tant’era ormai divenuta un’abitudine per loro. Le persone davano all’aeroporto la parvenza di un centro cittadino: entravano a mani vuote nei negozi e ne uscivano caricate con sacchetti colorati, mangiavano e bevevano rumorosamente nei bar e ristoranti, leggevano giornali, libri o riviste sulle panchine d’acciaio, sotto le luci artificiali delle lampade al neon, di un bianco accecante, qua e là disseminate nel terminal. Io li seguivo con il mio sguardo assente, adeguandomi a loro ma restando immersa nei miei pensieri. Mi sentivo quasi inconsapevole delle immagini che popolavano la mia mente, totalmente incapace di distinguere se descrivevano parte del mio tempo presente o del mio passato. Se non fosse stato per l’aiuto di qualche elemento tipico di un’epoca ormai remota, che fissava in me qualche punto di riferimento, non ne sarei facilmente venuta a capo. Forse proprio in questo era racchiusa la mia pazzia, quella che mia madre teneva tanto a dimostrare: la mia incapacità di distinguere immagini reali da quelle che erano solo frutto di una mia fantasia. Nutrivo la palpabile paura di scoprire di essere realmente pazza e di dover dare definitivamente ragione a mia madre e accettare le sue parole e i suoi pensieri. Tuttavia, ora che era morta, non avrei più nemmeno avuto la possibilità di parlargliene e di chiarire con lei. Temevo di aver realmente bisogno di un medico, per impedirmi di commettere sciocchezze in un futuro, quando sarei stata abbandonata definitivamente da quel sottile filo di ragione che ancora mi restava, facendomi isolare in una realtà abitata da tanti altri pazzi. Pazzi come me. Cominciavo a prendere coscienza della mia diversità, proprio ora che mi sentivo sola al mondo, abbandonata da tutto e da tutti. Forse se fossi tornata a casa, avrei evitato tutto questo. Avrei potuto riporre le mie paure in fondo alla cesta delle cose da dimenticare. Avrei continuato a parlare con i miei amici immaginari e, forse, avrei raccolto i miei pensieri in un libro nel tentativo di svuotarmi per sempre, allontanarli da me portandoli fuori dal mio corpo e dalla mia mente, per potermene liberare definitivamente.
L’altoparlante al gate annunciava l’inizio dell’imbarco sul mio volo, mancava giusto mezz’ora alle cinque: priorità ai disabili e alle gestanti. I pazzi sono considerati disabili, pensai, perché non approfittarne quindi? Notai che le persone accanto a me indugiavano nell’alzarsi dalle loro poltrone, erano ben coscienti della loro normalità a tutti gli effetti. Continuavano indisturbate a giocare con i loro telefoni. In quel momento notai che avevo scordato a casa il mio. Poco importava, pensai. Se nella mia vita passata ero riuscita a vivere senza telefono, potevo farlo anche ora, in questa vita, durante questo viaggio. Inoltre non sarei stata rintracciata da parenti e amici che avrebbero distolto la mia attenzione dalla ricerca chiedendomi informazioni, spiegazioni o cose simili che non avrei avuto tempo ne voglia di dare loro. Mi sistemai al posto assegnatomi sull’aereo, e dopo aver controllato le stampe degli indirizzi, delle mappe stradali e degli uffici del turismo di Joseph che avevo collezionato nei giorni precedenti la mia partenza, riposi la mia ventiquattrore nello scomparto aperto, sopra la mia poltrona. Sentivo freddo e il mio corpo era attraversato in continuazione da brividi che non riuscivo a controllare. Tuttora non so dire se erano causati dal condizionamento dell’aria o, piuttosto, dal mio condizionamento mentale.
‘Che cosa ci faccio io qui? Fatemi scendere, per favore, io non dovrei essere qui ora!’, pensavo mentre l’aereo cominciava a rollare sulla pista di decollo, per poi sollevarsi in punta e staccarsi dal suolo.
Osservavo ancora le persone intorno a me, era diventato il mio passatempo per quella giornata. Navigavo nel mare aperto dei pensieri che potevano impregnare le loro menti in quei momenti, mi perdevo nei sorrisi intensi e nel chiacchiericcio esasperato e amalgamato dal rumore dei motori dell’aereo, mentre le hostess passavano lungo il corridoio offrendoci dei drink. La mia non sarebbe stata una vacanza, pensai. Voltai lo sguardo verso il finestrino e notai che la tendina oscurante era rimasta aperta, vedevo le case e le strade ormai lontane farsi via via sempre più piccole. Erano parte di una fitta trama di costruzioni in cemento che racchiudevano persone impercettibili ai miei occhi. Era vero quello che mia madre mi diceva quando ero piccola:
Quando pretendi di voler vedere tutto, perdi la tua sensibilità verso il dettaglio e tutto appare fermo ai tuoi occhi. Non pretendere di voler conoscere o controllare tutto e tutti perché comunque non ti servirà e alla fine ti accorgerai di non aver visto proprio nulla. Concentrati piuttosto sul dettaglio, perché è su questo che puoi agire, quel dettaglio che tu stessa sei nel mondo e che è capace di farlo muovere ed evolvere.
Il cielo, di un azzurro intenso, era macchiato da rare e timide nuvole. Chiusi gli occhi per rilassarmi un po’, mi attendevano tre ore di volo. Sentivo le voci degli altri passeggeri allontanarsi sempre più da me, le loro parole divenivano sempre più confuse, indistinguibili. Mi addormentai profondamente e al mio risveglio avevamo già iniziato la fase di discesa verso la pista di atterraggio nell’aeroporto di Portland.
CAPITOLO 2
La città di Portland era ricoperta dalla neve, caduta in abbondanza nella notte precedente. Avevo sentito la notizia in televisione ma avevo sottovalutato il problema, ritenendola di scarso interesse per me. Attraverso le vetrate dell’aeroporto si vedevano montagne di neve ghiacciata disseminate lungo i bordi delle piste, era la neve che era stata rimossa dagli spalaneve per consentire il normale funzionamento dell’aeroporto, uno dei pochi inseriti nella lista di quelli che garantiscono un’ottima efficienza in tutti gli Stati Uniti d’America. Mi chiedevo se le strade sarebbero state altrettanto pulite o se il rischio della presenza del ghiaccio sui collegamenti principali avrebbe potuto compromettere seriamente la circolazione dei mezzi. Non appena vidi arrivare la mia valigia trasportata dal nastro dei bagagli appena scaricati dalla stiva dell’aereo, guardai l’orologio: erano già le nove di sera, eravamo in ritardo. Accelerai il passo, diretta al banco informazioni, dove trovai tante persone che come me dovevano dirigersi da qualche parte. L’impiegata, una grassa e scontrosa donna sulla cinquantina, diceva ad alta voce che le linee di autobus esterne erano ferme per via del maltempo e tutte le corse a lunga percorrenza erano state cancellate e rinviate al mattino seguente, mentre con veloci gesta della mano mimava la caduta della neve e la presenza di lastre di ghiaccio sulle strade. La gente era irritata e molti uomini dimostravano la loro forza picchiando i pugni sul bancone, accusando la povera donna d’incompetenza. Anche se non eccelleva per simpatia, quella donna non aveva nessuna colpa. Non appena la folla fu diradata, mi avvicinai al banco.
«Mi dica!», esclamò la donna ormai esausta.
«Buonasera, non sto qui a chiederle le stesse cose che hanno chiesto tutti quanti, ho già sentito la risposta. Ho capito che stasera non si parte. Volevo chiederle se mi saprebbe indicare un posto dove poter trascorrere la notte, qui in aeroporto o in città».
La donna si rilassò.
«Mi dispiace signora ma purtroppo i pochi posti disponibili sono già stati occupati tutti. Come lei può immaginare, in queste situazioni vanno a ruba. Potrebbe raggiungere il centro città, dove troverà sicuramente delle camere in hotel. Dov’è diretta?»
«Nel Wallowa», risposi.
«Bene. L’autobus per il Wallowa parte dalla quinta banchina, che trova proprio qui fuori, domani mattina alle otto. La tratta è piuttosto lunga, ci vorranno circa otto ore».
«Sette ore replicai», mostrandole il calcolo fatto dal computer durante la simulazione del viaggio.
«Otto ore quindi», insistette la donna, «anche se sarà possibile viaggiare non