ne è caduta davvero tanta. Si faccia trovare qui domani mattina, poco prima delle otto. Se ha bisogno di un taxi, li trova all’uscita del terminal, sulla destra. Buon viaggio, signora», concluse regalandomi uno stentato sorriso.
«Se la signora me lo permette, posso accompagnarla io in città», sentii pronunciare chiaramente da una voce proveniente dalle mie spalle. Mi girai e mi trovai davanti agli occhi un uomo. Era di bell’aspetto, moro con occhi verdi, aveva una fitta capigliatura ben curata e che lasciava intravedere qua e là qualche brizzolatura. Era senza barba ma portava i baffi con orgoglio. Dimostrava una quarantina d’anni e, per com’era vestito, doveva essere un uomo d’affari, una persona che ricopriva qualche ruolo importante in un’azienda o cose del genere. Portava appeso a un braccio il suo lungo cappotto, mentre con l’altra mano trascinava un trolley piuttosto piccolo. Mi fissava negli occhi a meno di un metro di distanza, mentre attendeva da me una risposta, un cenno di vita.
«Lei è molto gentile. Io però non la conosco, le chiedo scusa, non accetto mai passaggi dagli sconosciuti. E se ora mi permette, vorrei andare», gli risposi mentre di scatto mi giravo nuovamente verso il banco informazioni, facendo finta di cercare qualche cosa all’interno della mia borsa. Sentivo la sua presenza dietro di me, forse avrei dovuto utilizzare dei modi un po’ più gentili ma davvero non ci riuscivo. Mi sentivo fortemente a disagio. Mi girai nuovamente e lo guardai negli occhi.
«Le ripeto, non la conosco. Non è per mancanza di fiducia nei suoi confronti ma davvero non penso sia il caso di lasciare questo terminal con lei, mi perdoni», continuai, pensando così di chiudere definitivamente il dialogo con quell’uomo mai visto prima. Anche se da un lato mi dispiaceva, ricordai a me stessa che non ero in vacanza.
«Se può esserle di qualche aiuto, mi presento. Il mio nome è John. John Beal», disse allungandomi la mano. Mi sentii costretta a replicare, a spargere i fatti miei su un tavolo a viso scoperto. Una cosa che mai avrei voluto in una città o verso persone a me totalmente estranee.
«Katherine Fortuna», risposi senza guardarlo negli occhi, mentre sistemavo il portafogli nella tasca interna della mia borsa.
«Fortuna? E’ un cognome italiano, se non sbaglio», disse sorpreso e con un’espressione da ebete in volto.
«Si, Fortuna è un cognome italiano», replicai, visibilmente scocciata dalla sua insistenza nel voler portare avanti a tutti i costi un dialogo che io ritenevo già concluso a priori.
«Posso insistere nell’offrirle un passaggio quindi, Katherine?». Insisteva. Cominciavo a non sopportarlo più. Tuttavia un passaggio mi avrebbe fatto davvero comodo in quella gelida serata invernale.
«Quanto dista da qui?», chiesi sempre più scortese.
«Una mezz’ora, direi, viste le condizioni delle strade. La mia macchina è parcheggiata qui fuori, venga con me, mi segua. Intanto si copra bene, fuori fa molto freddo», rispose mentre indossava il suo lungo cappotto sopra l’elegante giacca grigia che, realizzai, nascondeva anche una bella cravatta rossa ben annodata sotto il colletto di una camicia bianca. Si offrì di prendere la mia valigia e la trascinò dietro di sé. Seguii il suo consiglio e m’infilai la giacca a vento che avevo legato intorno alla vita, prima di scendere dall’aereo. Ai suoi occhi di padrone di casa dovevo essere parsa una povera e sprovveduta provinciale. Procedeva con passo deciso, la sua falcata era così lunga che faticavo a stargli dietro. Cominciai a sentire l’affanno nel mio respiro e il cuore battermi forte, quindi mi fermai di colpo.
«Senta John “coso” o come diavolo si chiama. Ha intenzione di fare una maratona? Una corsa? Se è così me lo dica, così almeno mi cambio le scarpe e mi preparo!». Lui si girò con un’elegante e precisa torsione del collo e mi sorrise.
«Ha ragione Katherine, mi scusi. E’ la mia imperdonabile abitudine. Io sono sempre di corsa. Prego, riprenda fiato. Si prenda tutto il tempo che le serve, poi proseguiamo più lentamente».
Era un uomo elegante, non c’era ombra di dubbio. Non volevo passare da povera bambina capricciosa quindi risposi semplicemente che potevamo andare avanti. In quel momento fui io ad accelerare il passo e a lasciarlo dietro di me.
«Lei vista da dietro è altrettanto graziosa, lo sa? Chissà da quanti uomini lo avrà già sentito dire!».
Mi s’infiammarono le guance, sentii un caldo impossibile esplodermi nelle orecchie, m’irritai.
«Ma come si permette! Ma senti questo! Mi ha visto appena cinque minuti fa per la prima volta e ora già si permette di esprimere le sue personali considerazioni sulla mia persona. Chi le ha concesso tutta questa confidenza? Non si permetta mai più certe libertà, John Beal!». Ero furiosa come un toro di fronte ad un lenzuolo color rosso sangue, ma in cuor mio mi sentivo anche lusingata di essere stata notata per qualcosa di fisico. Anche se non glie lo avrei mai confidato, mi piaceva la sfacciataggine mostrata da quell’uomo.
«Molto bene signorina, vedo che ricorda già bene il mio nome completo! Possiamo andare ora?».
«Si, andiamo. E’ meglio!».
Il freddo era davvero pungente fuori dal terminal. Fortunatamente non c’era molta umidità nell’aria, il che la rendeva la temperatura sopportabile. Allungai il passo per seguire l’uomo e immediatamente scivolai. Non avevo le scarpe adatte e l’asfalto era coperto a chiazze da sottili lastre di ghiaccio.
«Per favore, si fermi qui!». John si girò sbuffando, chiedendosi il perché di quella mia richiesta, ma subito capì.
«Ha problemi con le scarpe, giusto? Prima di partire non si è interessata sulle condizioni meteorologiche? Tutti sapevano della bufera di neve su Portland. Va bene, è inutile parlarne ora. Ha delle scarpe più comode con sé?».
«In valigia, ma dovrei tirare fuori tutti i vestiti qui in mezzo alla strada, impiegherei troppo tempo e non ne ho assolutamente alcuna voglia. Cercherò di fare attenzione», lo rassicurai.
«In alternativa potrei portarla in braccio, se vuole. Che ne dice Katherine?». Era impertinente, ma anche gentile. Tuttavia quella sera il mio stato d’animo non mi permetteva di esprimere sentimenti di bontà alcuna.
«Oppure potrebbe andare a prendere la sua auto mentre io l’aspetto qui, con la mia valigia. Che ne dice signor Beal?», replicai con altrettanta impertinenza.
«Arrivo presto. Nel frattempo abbia cura di non prendere freddo, altrimenti la sua vacanza nel Wallowa la trascorrerà a letto con la febbre». S’incamminò diretto alla sua auto senza girarsi, attraversando le file di macchine e pick-up parcheggiati nell’enorme area. Pensai che forse non stessi facendo la cosa giusta, avevo avuto poche esperienze con gli uomini e tutte finite in malo modo. Mi avevano fatto soffrire, nessuno era mai riuscito ad accettarmi per quella che sono. Seguii John con lo sguardo fino a quando non riuscii più a scorgerlo e in quel momento cominciai a temere che non l’avrei mai più visto. Forse l’immagine di John era solo una proiezione della mia vita passata, quindi irreale. Avevo accettato un passaggio da un fantasma? Rabbrividii all’idea. Vedevo ovunque persone intorno a me che entravano e uscivano dal Terminal mentre parlavano e sorridevano. Alcuni discutevano animatamente tra di loro, ma almeno non erano soli, abbandonati a loro stessi, come invece mi sentivo io. Chiusi bene la giacca e avvolsi intorno al collo una sciarpa che avevo in precedenza inserito nella borsa. Non ero stata del tutto sprovveduta, evidentemente. Poi il deserto. Il lampione che si trovava proprio davanti a me rifletteva la sua luce sulla neve, facendola brillare come fosse polvere di diamante. Ripensai a quanto amavo da bambina le cose che brillavano, dicevo a mia madre che da grande avrei voluto avere tanti gioielli. “Certo che ne avrai tanti”, mi rispondeva sempre, mentre accarezzava i miei lunghi capelli neri.
In fondo alla strada vidi i due fari di un’auto allontanarsi sempre di più tra di loro, mentre il mezzo si avvicinava. Era un pick-up e dentro c’era John a guidarlo. Non immagini quanto io sia contenta di rivederti in questo momento, pensai tra me, mentre John scendeva dall’auto per caricarvi sopra la mia valigia. Solo in quel momento notai che aveva lasciato lì con me anche la sua, prima non lo avevo realizzato, assorta com’ero nei miei pensieri. Si era fidato di me, più di quanto non avessi fatto io nei suoi confronti. Avrei voluto dirgli grazie, ma le mie labbra non riuscirono a dare sfogo al mio istinto, rimanendo incollate tra loro. Salii in macchina