Морган Райс

Il Dono Della Battaglia


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battito di Thor accelerò mentre scorgeva oltre, in lontananza, un castello nero, fatto di ciò che appariva essere terra mescolata a cenere e fango. Si levava da terra come se fosse un tutt’uno con essa. Thor ne percepiva la malvagità anche da lì.

      Uno stretto canale conduceva al castello e il corso d’acqua era illuminato da torce e bloccato da un ponte levatoio. Thor vide delle torce brillare alle finestre del castello e provò una certa sensazione: sapeva con tutto il suo cuore che Guwayne si trovava dentro a quel castello ad aspettarlo.

      “Piene vele!” gridò risentendosi completamente in sé e provando un rinnovato senso di finalità.

      I suoi fratelli scattarono in azione issando le vele e cogliendo la forte brezza che soffiava da dietro e li spingeva avanti. Per la prima volta da quando erano entrati in quella Terra del Sangue Thor si sentiva ottimista, si sentiva certo di poter finalmente trovare suo figlio e salvarlo da quel posto.

      “Sono felice che tu sia vivo,” disse una voce.

      Thor si voltò e vide Angel che gli sorrideva tirandogli la camicia. Anche lui le sorrise, le si inginocchiò accanto e la strinse.

      “Anche io,” le rispose.

      “Non capisco cosa sia successo,” disse. “Un momento prima ero me stessa, ma l’attimo dopo… era come se non mi conoscessi.”

      Thor scosse lentamente la testa cercando di dimenticare.

      “La follia è il peggiore di tutti i nemici,” le rispose. “Noi stessi siamo gli avversari che non possiamo battere.”

      Lei si accigliò preoccupata.

      “Succederà di nuovo?” gli chiese. “C’è altro di simile in questo posto?” chiese con la paura nella voce mentre scrutava l’orizzonte.

      Anche Thor lo guardava, chiedendosi la stessa cosa. Poi improvvisamente, con suo orrore, la rispose venne rapida davanti a loro.

      Si udì un tremendo tonfo in acqua, come di una balena che saliva in superficie, e Thor fu stupefatto di vedere emergere la creatura più abominevole che mai avesse visto. Sembrava un mostruoso calamaro alto almeno quindici metri, rosso chiaro – il colore del sangue – e incombeva sulla loro nave salendo dall’acqua con interminabili tentacoli lunghi dieci metri: erano decine e si sparpagliavano in ogni direzione. I suoi occhi gialli, piccoli e brillanti, li guardavano pieni di rabbia mentre l’enorme bocca, piena di aguzze zanne gialle, si apriva emettendo un suono terribile. La creatura oscurò quel poco di luce che in quel posto buio era concessa ed emise un grido ultraterreno mentre iniziava a calare su di loro, allungando i tentacoli, pronta a divorare l’intera nave.

      Thor guardò con orrore, adombrato da quel mostro come tutti gli altri, e capì che erano appena passati da una morte certa ad un’altra.

      CAPITOLO DUE

      Il comandante dell’Impero frustò ripetutamente la sua zerta mentre galoppava nel mezzo della Grande Desolazione, seguendo le tracce come faceva ormai da giorni. Dietro di lui anche i suoi uomini avanzavano, ansimando, sull’orlo del collasso dato che non aveva concesso loro un solo momento di riposo per tutto il tempo che si erano trovati in viaggio, neanche di notte. Sapeva come stendere le zerte, e sapeva anche come annientare gli uomini.

      Non aveva pietà per se stesso e certo non ne aveva alcuna per i suoi uomini. Voleva che fossero resistenti alla stanchezza, al caldo e al freddo, soprattutto quando erano in missioni sacre come quella. Dopotutto se quelle tracce portavano effettivamente dove sperava – al leggendario Crinale – questo avrebbe potuto cambiare l’intero destino dell’Impero.

      Il comandante piantò i talloni nei fianchi della zerta fino a farla gemere, costringendola a correre più forte fino quasi ad inciampare sulle sue stesse gambe. Strizzò gli occhi al sole scrutando le tracce mentre proseguivano. Aveva seguito molte impronte in vita sua e aveva ucciso molta gente dove esse conducevano, eppure non aveva mai seguito una scia affascinante come quella. Sentiva di essere vicinissimo alla più grande scoperta nella storia dell’Impero. Il suo nome sarebbe stato commemorato e cantato per generazioni.

      Risalirono una dorsale nel mezzo del deserto e iniziarono a udire un debole rumore che man mano cresceva, come una tempesta che stava fermentando nel deserto: guardò oltre quando arrivarono in cima all’altura aspettandosi di vedere una tempesta di sabbia diretta verso di loro. Fu invece scioccato di vedere un muro di sabbia fermo a cento metri da lì, alto da terra fino a cielo, che vorticava e roteava come un tornado fermo sul posto.

      Si fermò con i suoi uomini dietro di sé e guardò incuriosito dato che pareva non muoversi. Non capiva. Era una parete di sabbia indiavolata, ma non si avvicinava neanche di un po’. Si chiese cosa ci potesse essere dall’altra parte. Sentiva che in qualche modo vi si trovava il Crinale.

      “Le tue tracce finiscono,” disse uno dei suo soldati con tono di scherno.

      “Non possiamo attraversare quel muro,” disse un altro.

      “Non ci hai portato da nient’altro che da ulteriore sabbia,” disse un altro ancora.

      Il comandante scosse lentamente la testa, accigliandosi e sentendosi sempre più sicuro.

      “E se dall’altra parte di quella sabbia si trovasse una terra?” ribatté.

      “Dall’altra parte?” chiese un soldato. “Tu sei pazzo. Non è nient’altro che una nuvola di sabbia, un’infinita desolazione come il resto di questo deserto.”

      “Ammetti il tuo fallimento,” disse un altro soldato. “Torniamo indietro adesso, altrimenti torneremo senza di te.”

      Il comandante si voltò rivolgendosi ai suoi soldati, scioccato dalla loro insolenza, e vide disprezzo e ribellione nei loro occhi. Sapeva di dover agire rapidamente se voleva tenerli a bada.

      In uno slancio di improvvisa rabbia afferrò il pugnale che teneva in vita e lo fece roteare con un movimento rapido conficcandolo nella gola del soldato. Il giovane annaspò, poi cadde all’indietro finendo a terra mentre una pozzanghera di sangue fresco si formava sul suolo desertico. Nel giro di pochi istanti uno sciame di insetti apparve dal nulla e ricoprì il corpo iniziando a mangiarlo.

      Gli altri soldati ora guardavano al loro comandante con paura.

      “C’è qualcun altro che desidera disobbedire ai miei ordini?” chiese.

      Gli uomini lo guardarono nervosamente, ma questa volta non dissero nulla.

      “Se non sarà il deserto ad uccidervi,” disse, “sarò io. A voi la scelta.”

      Il comandante si lanciò in avanti, abbassando la testa e lanciando un forte grido di battaglia mentre galoppava contro il muro di sabbia, sapendo che poteva significare la morte per lui. Sapeva che i suoi uomini l’avrebbero seguito e un attimo dopo udì il rumore delle loro zerte e sorrise di soddisfazione. A volte c’era solo bisogno di metterli in riga.

      Gridò mentre entrava nel tornado di sabbia. Sentì come una tonnellata di sabbia che gli calava addosso sfregandogli la pelle da ogni parte mentre vi si addentrava sempre più. Il rumore era così forte, simile a migliaia di calabroni che gli ronzavano nelle orecchie, eppure continuò a galoppare spronando la zerta, spingendola avanti nonostante le proteste della bestia, sempre più a fondo. Sentiva la sabbia che gli graffiava testa, occhi e volto e si sentiva come se avesse potuto farlo a pezzi.

      Ma continuò a galoppare.

      Proprio quando iniziava a pensare che i suoi uomini avessero ragione, che quel muro non portasse da nessuna parte, che sarebbero tutti morti in quel luogo, improvvisamente con suo grande sollievo emerse dalla sabbia e si trovò di nuovo alla luce del sole senza più la sabbia a sfregarlo, nient’altro che cielo aperto e aria che mai era stato più felice di vedere e sentire.

      Tutt’attorno a lui anche i suoi uomini emersero, tutti graffiati e sanguinanti come lui, insieme alle loro zerte, tutti con un aspetto più da morti che da vivi, ma comunque in vita.

      E quando sollevò lo sguardo