Морган Райс

Giostra Di Cavalieri


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poteri, ascolta la mia parola: moriresti di certo se ci andassi. Tutti voi morireste. Non sei ancora abbastanza forte. Non recupereresti tuo figlio e tutto verrebbe distrutto.”

      Ma il cuore di Thor si stava facendo duro nella decisione.

      “Ho affrontato il buio più grande, il potere più forte al mondo,” disse. “Incluso quello del mio stesso padre. Non mi sono mai tirato indietro per paura. Affronterò questo signore oscuro, qualsiasi siano i suoi poteri. Entrerò nella Terra del Sangue a ogni costo. Si tratta di mio figlio. Lo salverò, oppure morirò facendolo.”

      Ragon scosse la testa tossendo.

      “Non sei pronto,” gli disse con voce calante. “Non sei pronto… hai bisogno… del potere… Hai bisogno… del…dell’anello,” gli disse. Poi si mise a tossire spuntando sangue.

      Thor lo fissò con il disperato desiderio di sapere cosa intendesse dire prima che morisse.

      “Quale anello?” gli chiese. “La nostra terra?”

      Seguì un lungo silenzio, il rantolo di Ragon l’unico rumore nell’aria, fino a che aprì gli occhi appena un poco.

      “Il… sacro anello.”

      Thor afferrò Ragon per le spalle, voleva che gli rispondesse. Ma improvvisamente sentì che il suo corpo si irrigidiva tra le sue mani. Gli occhi rimasero immobili, si udì un orribile sussulto di morte e un attimo dopo smise di respirare e rimase fermo del tutto.

      Morto.

      Thor provò un’ondata di agonia pervaderlo.

      “NO!” gridò gettando la testa indietro e guardando il cielo. Fu scosso dai singhiozzi mentre abbracciava Ragon, quell’uomo generoso che aveva dato la sua vita per sorvegliare suo figlio. Si sentiva sopraffatto dal dolore e dal senso di colpa. Lentamente e con fermezza sentì crescere in sé la risoluzione.

      Guardò il cielo e capì cosa doveva fare.

      “LICOPLE!” gridò, lo strillo angoscioso di un padre disperato, infuriato, con niente rimasto da perdere.

      Licople udì il suo grido, quindi ruggì dall’alto dei cieli con una furia pari a quella di Thor e scese volando in cerchio, sempre più in basso, fino ad atterrare a pochi passi da lui.

      Senza esitare Thor corse da lei, le balzò sulla schiena e si tenne stretto al collo. Si sentiva energizzato ritrovandosi finalmente di nuovo in groppa a un drago.

      “Aspetta!” gridò O’Connor correndo verso di lui insieme agli altri. “Dove stai andando?”

      Thor li guardò con la morte negli occhi.

      “Alla Terra del Sangue,” rispose sentendosi più certo che mai. “Salverò mio figlio. A qualunque costo.”

      “Ti distruggeranno,” disse Reece facendosi avanti preoccupato e parlando con voce greve.

      “Allora morirò con onore,” rispose Thor.

      Guardò poi in alto, verso l’orizzonte, e vide la scia lasciata dai gargoyle che scompariva nel cielo. Capì dove doveva andare.

      “Allora non andrai da solo,” gridò Reece. “Ti seguiremo con la nave e ci troveremo laggiù.”

      Thorgrin annuì e strinse Licople. Improvvisamente provò la familiare sensazione di loro due sollevati in aria.

      “No, Thorgrin!” gridò una voce angosciata dietro di lui.

      Sapeva che si trattava della voce di Angel e provò una fitta di senso di colpa volando via da lei.

      Ma non poteva guardarsi alle spalle. Suo figlio si trovava davanti a lui e lui l’avrebbe trovato. E li avrebbe uccisi tutti.

      CAPITOLO NOVE

      Gwendolyn attraversò l’alta porta ad arco che conduceva alla sala del trono del re, tenuta aperta da diversi servitori. Krohn era al suo fianco e lei era impressionata dalla vista davanti a sé. Lì, dalla parte opposta della stanza vuota, il re sedeva sul suo trono, solo in quel posto immenso. Le porte riecheggiarono chiudendosi alle sue spalle. Si avvicinò percorrendo il pavimento di pietra e oltrepassando scie di luce che filtravano dalle file di vetrate colorate che illuminavano la sala con scene di antichi cavalieri in battaglia. Quel posto era tanto intimidente quanto sereno, ispirante ma allo stesso tempo infestato dai fantasmi di re del passato. Gwen ne percepiva la presenza nell’aria e questo le ricordò in molti modi la Corte del Re. Provò un’improvvisa fitta di tristezza al petto provando in quella stanza la mancanza di suo padre.

      Il re sedeva lì, pensieroso, il mento appoggiato ai pugni, chiaramente immerso nei suoi pensieri e, come Gwendolyn percepì, anche pressato dal peso del governo. Le apparve solo, intrappolato in quel posto, come se il peso del regno gli gravasse sulle spalle. Capiva benissimo quella sensazione.

      “Ah, Gwendolyn,” le disse illuminandosi vedendola.

      Si aspettò che rimanesse seduto sul suo trono, ma si alzò immediatamente in piedi e scese di corsa i gradini d’avorio con un caloroso sorriso in volto, umile, senza la pretesa di altri re, felice di accorrere a salutarla. La sua umiltà era un sollievo ben accetto per Gwendolyn, soprattutto dopo quell’incontro con suo figlio che ancora la faceva tremare per quanto le era apparso di cattivo auspicio. Si chiese se raccontarlo al re: per ora almeno pensò fosse meglio trattenere la lingua e vedere cosa accadeva. Non voleva apparire ingrata o dare inizio al loro incontro con una nota sbagliata.

      “Ho pensato a poco altro dopo la nostra discussione di ieri,” le disse mentre le si avvicinava e la abbracciava calorosamente. Krohn, al suo fianco, piagnucolò e spinse la mano del re con il muso. Il re abbassò lo sguardo e lo guardò sorridendo. “E questo chi è?” chiese calorosamente.

      “Krohn,” rispose lei, sollevata che gli piacesse. “Il mio leopardo, o per essere più precisi il leopardo di mio marito. Anche se penso che sia altrettanto mio adesso.”

      Con suo sollievo il re si inginocchiò, prese la testa di Krohn tra le mani, gli accarezzò le orecchie e lo baciò senza paura. Krohn rispose leccandogli la faccia.

      “Una bella bestia,” disse. “Un piacevole cambiamento per il nostro comune gruppo di cani che abbiamo qui.”

      Gwen lo guardò sorpresa dalla gentilezza e ricordò le parole di Mardig.

      “Gli animali come Krohn sono ammessi qui?” gli chiese.

      Il re spinse la testa indietro e rise.

      “Certo,” rispose. “Perché no. Qualcuno di ha detto diversamente?”

      Gwen era dibattuta se raccontargli o meno del suo incontro, ma decise di tacere ancora: non voleva essere vista come una spiona e aveva bisogno di saperne di più di quella gente e di quella famiglia prima di trarre ogni conclusione o gettarsi furiosamente in un dramma di famiglia. Era meglio a suo parere rimanere in silenzio per ora.

      “Volevi vedermi, mio re?” gli chiese invece.

      Immediatamente il suo volto si fece serio.

      “Sì,” le disse. “La nostra chiacchierata è stata interrotta ieri e mi resta ancora molto di cui discutere con te.”

      Si voltò e fece cenno con la mano invitandola a seguirlo. Camminarono insieme, i loro passi riecheggianti, attraversando in silenzio la grande stanza. Gwen alzò lo sguardo e osservò gli alti soffitti ad arco, le armi appese alle pareti, i trofei e le armature… Ammirò l’ordine di quel posto, l’orgoglio di quei cavalieri in battaglia. Tutto questo le ricordava il posto che avrebbe potuto ritrovare nell’Anello.

      Attraversarono la stanza e quando raggiunsero la parte opposta e passarono oltre un’altra serie di doppie porte – l’antico legno di quercia spesso decine di centimetri e lisciato dall’uso – si ritrovarono su un enorme balcone adiacente alla stanza del trono. Era largo almeno quindici metri e della stessa profondità, con una balaustra di marmo a fargli da cornice.

      Gwen