volta entrata, andò dritta allo specchio. Prima di mettere mano ai trucchi, voleva darsi una controllata ai denti. Una rapida occhiata non rivelò niente di visibile. Prese una rapida sorsata di collutorio e se lo stava rigirando in bocca, pronta a dare una ripassata dall’effetto smokey-eyes che aveva sulle palpebre, quando notò un braccio che usciva inerme dalla vasca alle sue spalle.
Si voltò sorpresa. Non era da Claire fare un bagno a quell’ora della notte. Di solito si schiantava a letto appena tornava a casa, a volte senza neanche uscire dai vestiti che indossava. Se era distesa nella vasca con le luci spente, significava che era proprio distrutta.
Gabby si avvicinò in punta di piedi, pregando di dover solo gestire una coinquilina svenuta e non una vasca da bagno piena di vomito. Quando scrutò oltre il bordo della vasca, ciò che vide fu molto peggio.
Claire aveva ancora addosso la minigonna che si era messa per uscire quella sera. Era distesa a faccia in su nella vasca, con gli occhi vitrei aperti, ricoperta di sangue. Il volto era rigato di rosso e il sangue aveva formato un amalgama denso e gelatinoso tra i suoi capelli. C’era sangue dappertutto, ma sembrava provenire per lo più dalla sua gola, che era straziata da diverse profonde ferite da taglio.
Gabrielle rimase con gli occhi fissi e si rese conto di essersi messa a gridare solo quando Carter apparve accanto a lei, scuotendole le spalle e chiedendole cosa ci fosse che non andava. Un’occhiata alla vasca gli diede la risposta. L’uomo barcollò all’indietro scioccato, poi prese il telefono dalla tasca dei pantaloni.
“Vieni fuori di lì,” le disse, afferrandola per un polso e tirandola via dall’orrore che aveva davanti. “Vai a sederti sul letto. Chiamo il nove-uno-uno.”
Gabby smise di gridare, grata di avere delle istruzioni da seguire. Andò intontita verso il letto, dove si sedette fissando il pavimento, ma senza realmente vedere nulla. Di sfondo sentiva la voce di Carter, lontana e metallica.
“Devo segnalare un omicidio. C’è una donna morta nella vasca da bagno qui. Pare sia stata pugnalata.”
Gabby chiuse gli occhi, ma la cosa non le fu di aiuto. L’immagine di Claire, inerme e immobile nella vasca, pochi metri più in là, era impressa nella sua mente.
CAPITOLO TRE
L’agente si stava comportando da vero stronzo. Tutto ciò che Jessie voleva fare era un po’ di jogging. L’uomo continuava a usare la frase ‘non raccomandabile’, il cui vero significato era ‘non permesso’. Indicò il tapis roulant che c’era in un angolo del salotto, come se quella fosse la soluzione a tutti i suoi problemi.
“Ma ho bisogno di aria fresca,” disse Jessie, sapendo di avere una voce che rasentava il piagnucolio.
L’agente, che conosceva solo come Murph, non era un tipo particolarmente loquace, cosa frustrante, dato che si trattava della guardia principale che prestava servizio lì. Basso e magro, con i capelli castano chiaro che sembrava regolare settimanalmente, era palesemente intenzionato ad evitare il più possibile la conversazione. Come a darne prova, indicò con un cenno il cortile sul retro. Jessie cercò di ricordare se fosse uno degli agenti assassinati nel suo incubo della notte precedente, e in parte quasi lo desiderava.
La verità era che non aveva davvero solo bisogno di una corsa o di un po’ di aria fresca. Voleva fare un altro giro negli ospedali della zona per vedere se vi si fosse presentato qualcuno che potesse corrispondere alla descrizione di suo padre, dopo l’ultima volta che aveva controllato, prima di essere rinchiusa in quella casa di sicurezza. Il suo collega, il detective Ryan Hernandez, avrebbe dovuto tenerla aggiornata su questo, ma dato che ultimamente non era riuscita a mettersi in contatto con nessuno, lui compreso, non aveva idea se avesse avuto o meno successo nell’impresa.
Jessie era piuttosto sicura che l’agente federale fosse a conoscenza delle sue reali intenzioni, ma questo non serviva a limare la sua irritazione. Stava dando di matto, così imprigionata in quella casa. E anche se sapeva che la tenevano lì per sua personale protezione, aveva raggiunto i limiti della sua pazienza, soprattutto dopo il sogno della scorsa notte. Decise che qualcosa doveva cambiare. E c’era un solo modo perché questo accadesse.
“Voglio vedere il capitano Decker,” disse con fermezza.
L’agente parve riluttante a rispondere, sperando forse di ignorare quella richiesta come aveva fatto con le altre. Ma ovviamente non poteva. Jessie non poteva costringerli a permetterle di andare a fare una passeggiata o a fare un salto al negozio di alimentari. Ma se faceva richiesta formale per vedere il suo capo, e la cosa poteva essere disposta con facilità, il servizio non poteva rifiutarglielo.
Lentamente e con volto accigliato l’agente alzò una mano e parlò nel dispositivo di comunicazione che teneva attaccato al polso.
“Ghiandaia loquace richiede una seduta autorizzata. Avvisare prego.”
Mentre Jessie aspettava la risposta, rimase in silenzio, decidendo di non commentare il nome in codice non proprio gradito che le avevano assegnato.
*
Novanta minuti dopo si trovava seduta in una piccola sala riunioni in un angolo tranquillo della Stazione di Polizia nel centro di Los Angeles, in attesa che il capitano Decker la raggiungesse. L’agente federale di nome Murph, che l’aveva accompagnata lì da casa sua, stava in fondo alla stanza, chiaramente ancora scocciato di doversi trovare lì.
La procedura per arrivare a quel luogo, generalmente noto come Stazione Centrale, era stata complessa. Dopo aver ricevuto autorizzazione formale per il viaggio da parte di Corcoran, si era dovuto mettere insieme un team e scegliere un percorso. Buona parte della cosa era stata preventivamente programmata, ma si dovevano selezionare le scelte definitive.
Diedero a Jessie istruzioni di indossare una parrucca e un berretto infilato in testa e tirato fino agli occhi. Poi il veicolo, guidato da un agente di nome Toomey, con Murph nel sedile del passeggero, era partito. Una seconda auto, con due altri agenti a bordo, seguiva a distanza. Due ulteriori agenti erano rimasti alla casa per tenerla in sicurezza.
Anche se era metà mattina e il traffico era praticamente leggero, con tutte le doppie svolte e le inversioni di marcia, c’erano voluti quarantacinque minuti ad arrivare. Una volta giunti alla stazione, l’auto era entrata nel garage ed erano dovuto restare tutti lì fino all’avviso di via libera da parte di due poliziotti, che non avevano idea di quello che stavano facendo, se non che stavano seguendo ‘ordini dall’alto’.
Solo allora Jessie era stata condotta attraverso un ingresso laterale, sempre con parrucca e berretto in testa, e un enorme giubbotto con il colletto tirato su del tutto per mascherare la sua effettiva stazza e il collo, che avrebbe potuto rivelare il suo sesso. Fu trattenuta in diversi punti, aspettando ogni volta che i corridoi si facessero sgomberi per poterla far passare.
Quando finalmente era arrivata alla sala riunioni, Murph l’aveva seguita dentro, mentre Toomey era rimasto di guardia alla porta. Dato che Toomey era sul metro e novantacinque e pesava probabilmente cento chili, con la testa completamente rasata e un perenno cipiglio in volto, Jessie dubitava che qualcuno avrebbe tentato di entrare senza permesso. Uno dei restanti agenti federali aspettava fuori dall’ingresso, nel passaggio che conduceva dal garage all’edificio, e il quarto percorreva lentamente il perimetro dell’edificio in auto, tenendo d’occhio la situazione e controllando che non ci fosse niente di insolito.
Jessie cacciò giù il senso di colpa per essere la causa di tutto quel procedimento. Sapeva di aver appena speso probabilmente migliaia di dollari dal denaro dei contribuenti statali, per una richiesta petulante. Ma c’era di più. Se fosse riuscita a portare il capitano Decker ad appoggiarla nel suo piano, il costo di quel breve tragitto in auto avrebbe potuto essere più che ripagato. Ma prima doveva convincerlo.
“Sai,” disse Murphy sottovoce dall’angolo in cui si trovava, parlando per la prima volta da quando erano entrati nella stanza. “Stiamo davvero tentando di tenerti al sicuro. Non sei tenuta a metterci i bastoni tra le ruote in ogni cosa che facciamo.”
“Non sto tentando di mettervi