da Corcira8 aveva affrontato il viaggio fino alla città del Faro9 per mezzo di un mercantile veneziano che commerciava seta. Dunque, mentre la flotta del suo Imperatore veniva sconfitta dai siciliani presso Eubea10, lui era attraccato in territorio nemico.
Il suo intento iniziale era stato quello di spingersi fino a Palermo, tuttavia si era voluto intrattenere alcuni giorni presso uno dei numerosi monasteri di rito greco del Val Demone11. Questi luoghi religiosi, sparsi sui monti della Sicilia nordorientale, avevano rappresentato per secoli il baluardo della cristianità contro l’islamizzazione dell’Isola, ma ora che a Palermo sedevano sovrani devoti alla chiesa di Roma, tali monasteri venivano sempre più accantonati in favore di quelli di rito latino; aumentavano così i monaci benedettini e diminuivano quelli basiliani.
Alessio era un uomo con un forte senso della spiritualità e non si faceva mai mancare la preghiera e la contemplazione, specie prima di affrontare le difficoltà della vita. Quelli infatti sarebbero dovuti essere giorni fatidici, in cui la sua esistenza, ricca di denari ma povera di affetti, si sarebbe dovuta capovolgere a soddisfazione dei suoi desideri. Anelava come niente al mondo riscattare dalla schiavitù la sua unica figlioletta, una ragazza ormai più che ventenne di nome Zoe, rapita dai siciliani molti anni prima, quando questi avevano strappato Corcira ai romei12.
Le cose, tuttavia, com’è facile intuire, erano andate storte. Invece di raggiungere Palermo, era finito in gattabuia, e invece di riscattare la figlia dalle mani dei padroni, era stato costretto a riscattare giorno dopo giorno la sua sopravvivenza. Pendeva su di lui un’accusa di omicidio e per tale accusa era già stata emessa la condanna per impiccagione. Si diceva che avesse ucciso un giudeo messinese di nome Moshè, medico personale dello Stratigò13, ma conosciuto soprattutto come presta denari. Alessio si dichiarava innocente e faceva appello alla giustizia divina affinché prevalesse su quella umana. Nondimeno pesavano a suo sfavore molte cose… Per quanto infatti la morte di Moshè avesse fatto comodo a molti, i suoi interessi erano tutelati dallo stesso Stratigò, il quale aveva promesso, sotto pressione dell’intera comunità giudaica, che la dipartita violenta del suo medico e amministratore di finanze non sarebbe rimasta impunita. Inoltre, cosa più importante, la colpevolezza di Alessio era avvalorata da un testimone oculare. Comunque sia, se il greco straniero non era ancora asceso al patibolo, il motivo andava ricercato nella sua grande fortuna economica. Custodiva il suo denaro, quello con cui avrebbe dovuto riscattare Zoe, un certo monaco basiliano14 di nome Onesimo, un giovane frate con cui Alessio aveva legato particolarmente nei giorni precedenti al suo arresto. Questi avrebbe dovuto tenere nascosto il denaro in vista della liberazione dello straniero, tuttavia, venendo a conoscenza della prossima condanna a morte, aveva deciso di trovare un accordo con lo Stratigò, tale Guglielmo Perollo. Settimanalmente partiva quindi dal suo monastero sui Peloritani e scendeva fino a Messina. Qui versava parte della somma nelle tasche dello Stratigò in modo che questi ritardasse l’esecuzione. Ecco perciò spiegato il motivo per cui il collo di Alessio non era ancora stato appeso ad un cappio. D’ogni maniera, se il prigioniero avesse saputo con che cosa Onesimo stesse pagando il suo mantenimento in vita, probabilmente avrebbe commesso un secondo omicidio a danno del religioso.
A circa tre anni dal suo arrivo a Messina, Alessio mise piede fuori dalla cella e gli occhi gli bruciarono per più di un’ora a causa dell’intensa luce.
«Sarai condotto a Palermo.» gli dissero.
Dunque per un attimo provò uno strano appagamento; forse lo portavano a Palermo perché era lì che avvenivano le esecuzioni importanti… e lui era divenuto noto e famoso.
Poi, prima che il carro dalle grosse ruote partisse per la capitale del Regno, Onesimo saltò dentro, intenzionato ad accompagnarlo.
Alessio lo fissò per lunghi minuti con i suoi occhi azzurro cielo; il suo sguardo era serio ma non spento, la sua espressione piena di rancore ma non avvilita. Perfino quando il carro cominciò a sobbalzare tra sassi e buche, il greco restò a guardare il suo giovane conoscente senza dire nulla.
«Hai tu il mio denaro!» esclamò poi, come se a quella conclusione vi giungesse adesso.
«Credo nella vostra innocenza.» rispose invece Onesimo, ma Alessio sembrava pensare solo ad una cosa.
«Il mio denaro… dov’è? Devi ridarmelo!»
Il viso candido del frate si turbò. Per come lo straniero lo fissava forse aveva fatto male a crederlo innocente. Allargò perciò al collo la semplice tunica monacale e tirò fuori un sacchetto tintinnante di monete.
«Questo è ciò che rimane…»
Quindi Alessio, nonostante fosse legato ai polsi, gli saltò addosso come una bestia feroce, intendendo strozzarlo.
«Se siete ancora vivo è perché ho pagato lo Stratigò!» urlò Onesimo, non appena gli fu chiaro che quell’aggressione si sarebbe conclusa con qualcosa di grave.
«Avreste conservato il denaro per riscattare vostra figlia, ma non avreste potuto abbracciarla…» spiegò ulteriormente.
La cosa, dopo alcuni minuti di imprecazioni e maledizioni, che fecero fischiare le orecchie del giovane tonsurato, parve convincere Alessio.
«Potevi intascarteli tu quando hai saputo la fine che avrei fatto.» ragionò il prigioniero, intanto che la lunga barba grigia dondolava a destra e a sinistra per via della strada dissestata.
«Maestro, voi mi avete appassionato con i racconti della vostra arte ed io non riuscirei a non ammirarvi neppure se criminale lo foste davvero.»
«La mia arte… a cosa mi serve adesso la mia arte?» domandò Alessio, rivolgendosi al destino infausto e sollevando impotente le spalle.
«Voi potete dare ancora molto, e potete insegnare ai giovani quella vostra teoria su come imbrigliare la luce nella pietra.»
«Riponi la tua fiducia sull’uomo sbagliato.»
«No, voi davvero potete riprendere il controllo della vostra vita… o almeno vi è una possibilità perché questo accada…
Statemi a sentire: un paio di mesi fa passò per il palazzo dello Stratigò un funzionario del Re ed io mi ci imbattei per caso. Questi parlava fluentemente il greco nostrano, la mia stessa lingua, e non mi ci volle molto per comprendere che fosse diretto a Palermo. Colsi l’occasione e gli parlai di voi, Maestro… di voi e del torto che si stava facendo al Re lasciando marcire nelle carceri un tale genio. È risaputo che Guglielmo d’Altavilla sia mecenate d’arti e cultore delle piacevolezze della vita. Quell’uomo, un logotheta15 di nome Basilio, si lisciò la barba interessato all’argomento, dunque mi parlò di una grande sala del Palazzo Reale che il Re aveva intenzione di abbellire con dei mosaici. E infine, quando gli dissi che venivate da Costantinopoli e che avevate impreziosito le stanze dell’Imperatore, sorrise e mi disse che per certo ne avrebbe parlato al Re.»
«Io non ho mai prestato servizio per l’Imperatore. Tu pecchi mentendo, ragazzo!»
«Davvero io l’ho creduto…»
«Sebbene io non te ne abbia parlato… Poco male… in fondo era a Palermo che intendevo giungere già tre anni or sono. Troverò la mia Zoe e la strapperò dalle mani di quel maledetto!»
Onesimo tossì due volte, segno che avesse tralasciato di comunicare una postilla importante.
«Temo, Maestro, che le cose non siano come le credete. Il Re non vi ha accordato nessuna grazia, ed in verità, anche se desiderasse farlo, la cosa non sarebbe così semplice.»
«Quale razza di sovrano vi governa?» chiese stizzito Alessio.
«Quello che vi è successo è accaduto nella gloriosa Messina e la legge cittadina, maggiore perfino all’arbitrio del Re, vieta ai tribunali che non siano composti da messinesi di giudicare i misfatti avvenuti in città.»
«E dunque