Giovanni Mongiovì

Le Tessere Del Paradiso


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è stata amica.»

      «E non vale a nulla che a morire sia stato soltanto un avaro giudeo?»

      «I giudei di Messina hanno pari diritti dei cristiani, e godono di tutela anche nelle altre città del Regno.»

      «Che assurdità!» esclamò Alessio.

      «Vi ci dovete abituare… anche se so bene che a voi stranieri molte cose di questa terra appaiano come bizzarrie. Ad ogni modo, farete bene a considerarvi come in prestito per un servigio da rendere al Re, poiché in realtà appartenete ancora alle carceri messinesi.»

      «Per quale assurdo piacere allora mi hai fatto tirare fuori? Non posseggo più il denaro e non posseggo più la libertà… verrò comunque ucciso, ma dopo aver lasciato la mia firma sulle pareti del Palazzo del Re. Che guadagno posso averne in tutto questo?»

      «Maestro, voi mi avete detto che la vostra arte vi importava più della stessa vita ed io ho creduto di farvi felice.»

      «Tu sei solo un monachello che ha deviato la propria fede e si è abbandonato al materialismo delle arti umane.»

      «Chiedo solo di vedervi all’opera… e poi farò penitenza.»

      Alessio si resse quindi la testa come preso da una forte emicrania.

      Capitolo 2

       Ottobre 1160 (Anno Mundi 6669), Balermus16, Palazzo Reale

      Raccogliere il testimone di Re Ruggero sarebbe stato un compito arduo per chiunque. A causa della straordinarietà dell’uomo che era stato e della grandezza raggiunta dal suo regno, sarebbe diventato il termine di paragone per tutti i re che si sarebbero avvicendati sul trono di Sicilia… ed ovviamente, com’è facile immaginare, dal confronto quasi tutti ne sarebbero usciti rimpiccioliti.

      La nascita di Guglielmo non era stata accolta col consueto giubilo riservato agli eredi al trono. Essendo solo il quarto dei figli avuti da Ruggero, era impensabile che un giorno potesse diventare il sovrano del glorioso Regno costruito da suo padre. E forse, proprio per questo motivo, il destino gli aveva riservato le qualità strettamente necessarie alla sua natura, solo ciò che gli sarebbe servito per vivere lontano dalle responsabilità di governo. Guglielmo era un coraggioso combattente, una qualità consona ai cadetti, ma per quanto riguardava i pregi che rendono un sovrano un buon sovrano, era mancante in tutto. La morte dei suoi fratelli l’aveva costretto a ricoprire un ruolo in cui, per tutta la durata del suo regno, sarebbe stato additato come incapace. Guglielmo era abulico, avaro e pieno di superbia. Non aveva abbastanza forza di carattere e volontà per prendere decisioni, e a differenza di Ruggero, il quale firmava tutto ciò che usciva dal Regio Palazzo, rimandava le questioni o delegava i suoi potenti ministri. Passava gran parte del suo tempo nelle splendide regge fuori Palermo, attorniato da paradisiaci giardini e lusso d’ogni genere, e qui, tra eunuchi e donne favorite, era solito abbandonarsi a smodati banchetti e piaceri sessuali. Del suo ruolo assolveva quindi solo gli aspetti piacevoli, e tutto questo mentre uomini più furbi e capaci di lui imperavano a proprio arbitrio. Spiccava tra tutti i suoi funzionari Majone di Bari, Emiro degli Emiri ed Arconte degli Arconti, chiamato Amiratus17 da quelli che contavano e Ammiraglio dal popolo. Questi era la vera mente del governo. Benché le origini di Majone fossero modeste, si era distinto già ai giorni di Ruggero per la sua effettiva intelligenza amministrativa e militare. Un uomo che tuttavia ricalcava i vizi della corte forse ancor più del Re e che sapeva imporre il potere regio con straordinaria crudeltà e violenza. Lo conoscevano bene i baroni della Terraferma che ci si erano scontrati durante l’ultima ribellione. Sarebbe bastato un qualsiasi giudizio, perfino il più benevolo, per indicarlo come la ragione di ogni male e di ogni sventura del Regno. Perfino i saraceni, benché parteggiassero per il Re, avevano da ridire su Guglielmo e sopratutto sul suo primo ministro. E alla fine, per le proprie e altrui mancanze, sarebbe stato proprio il Re a pagare il prezzo più alto, e l’avrebbe fatto con la reputazione riservata ai libri di storia, con quell’epiteto che avrebbe accompagnato il suo nome per tutta l’eternità: Guglielmo di Sicilia, detto il Malo.

      Appena giunti a Palermo, Alessio venne condotto al Palazzo del Re e qui venne accompagnato da quel Basilio logotheta fino ad una sala ubicata nella torre chiamata Joharia18, presso le stanze del tesoro. La sala in questione era di medie dimensioni e dalla forma allungata. Inoltre aveva il soffitto a crociera e su un lato di essa si apriva una loggia che dava sul panorama di Palermo.

      «Quando arriverà il Re è consuetudine che vi prostriate col viso al pavimento.» istruì il dignitario.

      E di fatto non passò molto che Guglielmo d’Altavilla fece capolino nella sala insieme ad uno stuolo di uomini preziosamente vestiti, eunuchi e servi.

      Guglielmo era un uomo alto, di aspetto pregevole, anche se in viso manifestava un minimo di trascuratezza dovuto probabilmente all’animo indolente e vizioso. Indossava una larga e lunga veste di foggia arabesca, a significare come nel suo perpetuo soggiorno a Palermo, nel suo eterno oziare tra i giardini e gli harem dei suoi palazzi, si fosse fatto influenzare dall’impronta culturale islamica della città.

      «Basilio, è questo l’uomo di cui mi avevate parlato?» chiese Guglielmo una volta che l’ospite si rimise in piedi e ce l’ebbe davanti.

      Il timbro della voce del Re lasciava trasparire tutta la mollezza del suo carattere.

      «Come vi chiamate?» domandò quindi direttamente allo straniero, rivolgendosi in greco.

      «Aléxios, Maestà.»

      «Avete ucciso un uomo; perché un assassino compare oggi al mio cospetto?»

      «In verità, Maestà, venni accusato ingiustamente…»

      «Ingiustamente? Dite quindi che la giustizia del Regno sia fallace?»

      «Non la giustizia in sé, Maestà, ma nel mio caso un uomo testimoniò il falso.»

      Guglielmo sbuffò, come spazientito dalle discolpe di Alessio.

      «Basilio, raccogliete quanto prima le rimostranze di quest’uomo…» comandò al logotheta, il quale rispose con un accenno di inchino.

      «E tu, Mattia.» fece perciò ad uno degli eunuchi che lo accompagnava.

      «Occupati di rendere presentabile il nostro ospite. Fallo radere, cambiare d’abito e lavare…»

      E rivolgendosi a tutti:

      «Che non mi sia più presentato qualcuno che non sia al meglio del suo aspetto… Non sopporto i visi scuri e tristi!»

      «Me ne occuperò io, Maestà.» rispose quel tale Mattia.

      «Bene, dagli cibo e comodità… e pure una donna se te la chiede. Questa corte tratta con rispetto gli uomini d’arte e di scienza!»

      Fu allora che Guglielmo si sciolse dagli uomini del suo seguito e prese a passeggiare avanti e indietro nella stanza.

      «In questa sala mio padre ricevette molti grandi uomini e prese importanti decisioni. Gli erano care queste quattro mura e gli era cara questa torre, così come gli era cara la vista della nostra amata Palermo guardando dalla loggia. Io ho continuato la sua tradizione e vi ho continuato a tenere le mie udienze private… tuttavia oggi intendo rendere questa sala un luogo di stupore, qualcosa che desti meraviglia, qualcosa degno della cappella del Palazzo e delle cattedrali edificate da mio padre.»

      Alessio intanto studiava le pareti e il tetto osservando in tutte le direzioni.

      Quando Guglielmo si accorse della distrazione del maestro d’arte, gli chiese:

      «Per certo uno con le vostre referenze deve vedervi già l’opera compiuta…»

      «In verità, Maestà, scrutavo le linee, la luce e gli spazi… ragionavo sul potenziale che queste mura possono esprimere.»

      «E che cosa vedete oltre la pietra?»

      Alessio si spostò al centro della sala e, guardando il vertice del tetto a crociera, propose:

      «Quattro cherubini dai colori sgargianti, uno per lato!»

      Guglielmo