Giovanni Mongiovì

Le Tessere Del Paradiso


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tirò fuori dalla tasca una manciata di monete d’oro e d’argento e le gettò oltre i suoi interlocutori, proprio nel bel mezzo dell’incrocio.

      Uno della combriccola del porto si mosse per andare a raccattare quel denaro, ma Vittore lo trattenne prontamente per un braccio e commentò serio:

      «Non mi sono mai inchinato a raccogliere l’elemosina di nessuno! Ma avete ragione… consegnare quell’uomo era nostro dovere.»

      Dunque il venditore di conchiglie concluse piegando un ginocchio e accennando un inchino.

      «Vostra Eccellenza…» salutò infine prima di congedarsi.

      «Te l’avevamo detto che non avremmo dovuto avere a che fare con l’Ammiraglio.» commentò Duccio a bassa voce non appena ebbero girato le spalle.

      Vittore intanto stringeva i pugni.

      «Pagherò vostra sorella… Vittore, venditore di conchiglie!» urlò uno di quelli che stava accanto a Majone, uno che evidentemente conosceva il mercato del porto.

      L’obiettivo dell’Ammiraglio era quello di umiliare coloro che recalcitravano alla sua imposizione di potere; ora lasciava perciò che uno dei suoi insultasse colui che si era mostrato più coriaceo. Majone si defilava e si dirigeva verso il suo cavallo, mentre alcuni del suo seguito si avvicinavano minacciosi ai compari del porto.

      «Non hai sentito, pescivendolo? Pago tua sorella!» urlò ancora quello che aveva cominciato.

      Vittore si fermò.

      «Lo ammazzo!» sentenziò a bassa voce.

      «È già tanto che ti sia andata dritta con quell’eunuco. È già tanto che non ti abbia mandato gli uomini del Re.» disse la sua Mamiliano.

      Dissuaso dai suoi amici Vittore riprese il passo.

      «Sappiamo dove abiti.»

      Udita l’ultima frase, Vittore si voltò e, comprendendo che non avrebbe risolto nulla con l’indifferenza, chiese:

      «Che cosa volete da me?»

      «Non potete rifiutare il dono di Sua Eccellenza. Raccogliete quelle monete e ringraziate la mano che ve le ha concesse.»

      Vittore sapeva che dopo quel gesto l’Ammiraglio e la sua guardia più fidata ne sarebbero usciti soddisfatti, nondimeno una forza più grande di lui gli impediva di piegarsi.

      «È davvero poca cosa.» incoraggiò qualcuno tra i pescivendoli.

      «Se la prenderanno con la tua famiglia.» aggiunse Duccio.

      Vittore emise un lungo respiro e commentò bassa voce:

      «Ammiraglio, è così che ti ingrazi il popolo?»

      «Taci Vittore… siamo solo dei poveracci! Me lo hai detto tu, ricordi?» rimproverò ancora Duccio.

      Intanto Majone e il grosso del suo seguito lasciavano quel luogo per rincasare.

      Ora una folata di vento colpì alle spalle Vittore, e questi avvertì come la sensazione che sulla piazza restasse solo lui a fronteggiare l’uomo dell’Ammiraglio.

      «Se non conoscessi la vostra natura… l’infamia di quelli che derubano chi già non ha e maltrattano chi non può difendersi… se non fossi sicuro che di fronte alla sconfitta cerchereste soddisfazione sui miei cari… allora vi proporrei un duello… Anche se non so se avreste il coraggio di accettare!» sfidò l’uomo delle conchiglie.

      «Non vi sarebbe più facile raccogliere quel denaro?» chiese perplesso il soldato che scortava il primo ministro, il quale quella sera non aveva proprio voglia di far scorrere del sangue.

      «Mi sarebbe più facile se voi mi lasciaste andare in pace. Altrimenti sarebbe più conveniente che voi non mi incontriate mai in un’altra circostanza… da solo, in altri abiti e senza la possibilità che qualcuno si rivalga sulla mia casa.» spiegò e minacciò Vittore, consapevole che in qualunque caso quella sera ne sarebbe uscito sconfitto, ma non volendo comunque far passare la cosa come una ritirata.

      «Quando potrete permettervi una spada… forse…» rispose provocatoriamente l’altro, ridacchiando per sottolineare la differenza sociale che intercorreva tra loro due.

      «Io impugno il coltello da pescivendolo; battetevi ad armi pari e vi farò vedere!»

      Mentre l’ansia saliva tra quelli del porto e tra gli uomini dell’Ammiraglio aumentava la consapevolezza che Vittore facesse sul serio, dall’angolo della via che costeggia le mura più esterne del Palazzo Reale cominciò a presentarsi un folto numero di uomini in armi e a cavallo. L’aspetto di questi era nobile e l’andatura con la quale spronavano i propri destrieri sicura. L’inconsueta presenza di quei tizi fece rimandare duelli e malumori a quelli che se ne stavano già sull’incrocio opposto.

      Una parte dei nuovi giunti si avvicinò perciò agli uomini dell’Ammiraglio ed uno disse a gran voce:

      «Dichiaro Majone di Bari decaduto! L’epoca dei tiranni è finita! Da che parte state?»

      Gli uomini dell’Ammiraglio, dal basso della loro posizione di appiedati, si guardarono l’un l’altro. Era chiaro che contro i nuovi non avrebbero prevalso.

      «Risparmiateci le vite, Signori!» implorò terrorizzato il tizio che finora si era mostrato tracotante con Vittore.

      La spada gettata sul selciato fu il segno lampante della frettolosa resa degli scagnozzi di Majone.

      «E voi, da che parte state?» chiese sempre lo stesso a Vittore.

      «Abbasso la tirannia! A morte Majone!» gridò tutto d’un fiato il venditore di conchiglie, come a volersi liberare di tutta la tensione accumulata finora.

      «Bene! Alla porta di Sant’Agata anche voi!» concluse il tipo a cavallo.

      Vittore non aveva la men che minima idea di cosa stesse succedendo, tuttavia, comprendendo che quello fosse un comodo pretesto per risolvere la questione con i tirapiedi di Majone senza cedere e umiliarsi, corse alla spada gettata dall’uomo dell’Ammiraglio e la raccolse. Gli altri dei suoi fecero lo stesso con le armi gettate dagli sconfitti. Nessuno degnò più le guardie di Majone d’attenzione.

      Vittore adesso correva per stare al passo dei nobili a cavallo, correva e immaginava che quella notte, andando dietro a quegli uomini, sarebbe stato possibile agguantare un guadagno maggiore. D’altronde l’aspetto fiero e autorevole di quelli gli dava la certezza che la caduta della tirannia del perfido Ammiraglio si sarebbe concretizzata davvero quella notte.

      Dalle finestre del palazzo dell’Arcivescovo cominciarono ora ad apparire lumi e volti della servitù, gente che sembrava essere già preparata allo spettacolo che stava per consumarsi per le strade di Palermo.

      Percorsero il Cassaro da una parte all’altra costeggiando le mura del Regio Palazzo, passarono il Kemonia e giunsero in prossimità della porta di Sant’Agata. Qui molti di quelli che in precedenza accompagnavano Majone ora fuggivano nelle più disparate direzioni, alcuni incalzati dai rivoltosi. Un cavallo imbizzarrito sbucò dall’oscurità e quasi non travolse Vittore e i suoi, i quali dovettero assottigliarsi alle mura dei palazzi sul bordo della via.

      La scena che si era appena consumata giusto fuori dalla porta era qualcosa che fino a poco prima nessuno avrebbe immaginato. Majone se ne stava disteso al suolo, trafitto dalla spada del capo dei cospiratori, ovvero di quel giovane nobile che aveva interloquito con Amjad nemmeno mezz’ora prima. Questi aveva infatti supposto che in quella carrozza potesse esserci proprio l’Ammiraglio, inconsuetamente privo di scorta dal momento che intendeva filarsela senza dare nell’occhio, spaventato dalla voce di possibili rappresaglie. L’uomo che attentava alla vita di Majone si era sbagliato, tuttavia adesso, riuscito finalmente nel suo intento e attorniato dai suoi fedelissimi, annunciava a gran voce:

      «La tirannide che affliggeva il Regno è caduta, il sangue innocente che quest’uomo ha versato è stato vendicato!»

      Intanto cominciavano ad avvicinarsi uomini e donne della cittadinanza, gente facente parte delle ombre che la notte si aggirano tra il vizio e il malaffare per le vie della città. Il numero divenne sempre