penserò.
Oscar non conosceva suo padre, l’aveva visto solo in vecchie foto quando era un adolescente. Se lo avesse incrociato per strada, non se ne sarebbe nemmeno accorto. Nelle foto che aveva visto, notava una gran somiglianza con se stesso: entrambi di carnagione scura, con gli occhi scuri e un fascino indiscutibile.
A suo tempo il padre del figlio maggiore era stato il grande amore di Monica, ma tutto cambiò dopo che se ne andò con un’altra giovane donna. E anche se il padre di Oscar aveva tentato di vederlo quando era neonato, Monica si era sempre rifiutata.
Più tardi Samuel stava giocando in casa con suo fratello. Era mercoledì, quel giorno era la volta della caccia al tesoro. Dopo che Samuel e Oscar avevano fatto i rispettivi compiti, uno dei due fratelli nascondeva un oggetto e l’altro doveva trovarlo. Chi lo trovava per primo vinceva. Quasi sempre lo trovava prima Oscar, ma fingeva di non rendersene conto per lasciar vincere il fratellino.
Quel giorno Samuel cercava nell’armadio di Monica, che era uscita per fare acquisti. Samuel guardò nei cassetti della parte di sotto senza molto successo. Poi prese una sedia per provare ad arrivare alla parte alta dell’armadio, ma tirando un foulard di Monica che era lì, tirò involontariamente una scatola di cartone. Oscar, che era al piano di sotto, salì correndo appena sentì il rumore, pensando che suo fratello fosse caduto.
– Samuel, stai bene? – gridò Oscar, mentre saliva le scale.
– Sì, sto bene.
Oscar entrò nella camera di sua madre. Samuel era seduto a guardare dei fogli, tra i quali c’erano delle fotografie.
– Chi è questo signore? – chiese Samuel.
– È mio padre.
Oscar non voleva intromettersi nell’intimità di sua madre. Così iniziò a raccogliere i fogli e le fotografie e ordinò a Samuel di continuare a cercare in un’altra stanza. All’improvviso il suo cuore accelerò. C’era una foto di sua madre incinta con suo padre. Dietro la foto c’era il nome completo di suo padre, anche lui si chiamava Oscar. Ma in quella scatola c’era molto di più. Chiuse la porta e si mise a guardare tutto. C’erano lettere indirizzate a sua madre da suo padre, dediche, poesie. Quella scatola respirava amore. Trovò un numero di telefono, immaginò che fosse di suo padre. Ma ciò che trovò nel fondo della scatola fu la cosa peggiore per Oscar. C’erano vari giocattoli e figurine, oltre a varie lettere ancora chiuse. Aprì una delle lettere, era indirizzata a lui, tutti i giocattoli erano per lui, regalo di suo padre. Inoltre c’erano foto più recenti. Oscar pianse per tutto quello che si era perso. Prese le lettere indirizzate a lui e mise il resto nella scatola. Quando uscì dalla camera, sorrise e continuò come se niente fosse.
– Samuel, non dire a mamma che abbiamo visto la scatola.
– Perché?
– Perché si arrabbierebbe.
Ore dopo Monica rientrò. Oscar si comportava come se niente fosse. Tutto sembrava normale.
Di notte lesse ogni lettera e con ogni lettera pianse sempre più afflitto, cercando di non far rumore.
Il pomeriggio del giorno successivo Oscar teneva in una mano l’opuscolo del laboratorio e nell’altra il cellulare con il numero di suo padre composto. Decise di chiamarlo. Uscì in strada con il cellulare che squillava. Tre squilli. Quattro squilli. Prima del quinto squillo risposero. Si sentì una voce maschile, calda e tranquilla, come se fosse di una persona della sua stessa età. Oscar si paralizzò. E se avesse avuto altri fratelli?
– Pronto? – ripeté la voce all’altro lato della linea telefonica.
Oscar riattaccò ed entrò in casa. Sua madre lo guardò.
– Qualcosa non va?
– No, niente.
– Non sai mentire. Dai, dimmi, che succede?
– È che ho un compito di Scienze per cui sto facendo fatica.
– Dev’essere difficile perché tu faccia fatica.
Oscar sorrise. Aveva un coefficiente intellettuale alto, prendeva sempre voti alti.
Per cena mangiarono una ricetta della nonna di Samuel e Oscar.
– È molto buono, mamma – disse Samuel.
– Grazie – disse Monica meravigliata.
– Mamma, raccontaci la storia di come hai conosciuto il papà di Oscar.
Monica guardò in direzione di Oscar, lui arrossì.
– Quella di mio papà la sappiamo già, ce l’hai raccontata molte volte – continuò Samuel, dando enfasi a “molte”.
– D’accordo, quando finiamo di cenare, ve la racconto.
3. Quello che succede a Maiorca resta a Maiorca
Era mezzanotte, e anche se Carolina se n’era andata ore prima, Keysi continuava a lavorare come se fosse ancora pomeriggio. Nella stanza si sentiva la musica di Wagner. Mentre nella stanza suonava l’ouverture de L’Olandese Volante, Keysi credette di aver trovato un antigene per il virus indiano. Ci aveva messo cinque giorni. La sua collega non aveva ancora raggiunto nessun risultato definitivo. Keysi osservava nel suo microscopio come il suo virus colpiva l’altro, distruggendolo del tutto. Prese il telefono e chiamò Norberto.
– Ce l’ho – disse la virologa appena rispose al telefono.
– Chi sei?
– Sono Keysi.
– Keysi, hai idea di che ora è? – la voce di Norberto sembrava lontana.
– Mi dispiace molto, spero di non averti svegliato.
– Sì, Keysi, stavo dormendo, ma, dimmi, cosa hai?
– L’antigene per il virus indiano, è pronto affinché un ProHu lo provi.
– Mio Dio, parli sul serio?
– Assolutamente sì.
– Bene. Chiamerò Clara, anche se starà dormendo, così domani mattina presto lo proviamo.
– Domani? È troppo tardi. E se lo provassi io con me stessa?
– Cosa? Keysi, neanche per sogno, te lo proibisco.
– D’accordo, aspetterò.
Nel tempo trascorso da quando Keysi iniziò a esaminare il virus, il numero dei morti salì fino ai settantamila circa, anche se si prevedeva che potevano essercene all’incirca ventimila senza bisogno di contarli. In India regnava il caos. A causa di questo virus tutte le frontiere erano state chiuse. Migliaia di turisti erano rimasti bloccati nel paese aspettando che qualche laboratorio trovasse una cura. Era la solita procedura quando un virus diventava incontrollabile.
Keysi tornò a casa esausta. Incrociò dei turisti inglesi, evidentemente ubriachi, che camminavano mezzi addormentati. Appena entrò in casa, accese la TV e preparò qualcosa da mangiare. Non toccava cibo da circa dodici ore. Cambiò canale per vedere il telegiornale. Keysi restò a bocca aperta. Stavano preparando una nuova legge a livello mondiale, per cui avrebbero dovuto informare la gente su tutti i virus attivi, con ogni dettaglio. Keysi pensò alle parole di Norberto della settimana precedente. Se si fosse venuto a sapere di tutti i virus, laddove ce ne fosse stato uno la gente sarebbe impazzita, avrebbe svuotato i supermercati e si sarebbe trincerata in casa finché il virus fosse sparito.
Keysi si avvicinò al Centro di Controllo della casa, un sistema che controllava praticamente tutte le funzioni della casa, e lo collegò al suo cellulare. Dal cellulare premette “Riempire vasca da bagno”, poi premette le opzioni “Acqua calda” e “Bolle di sapone”.
Quando entrò nella camera da letto per prendere dei vestiti puliti, vi trovò il suo ex fidanzato che stava dormendo. Aprì l’armadio senza far rumore e prese dei vestiti. Doveva trovare un’altra casa, la situazione era sempre più scomoda. Tutte le case che Keysi aveva visto erano vecchie, prive di Centri di Controllo.
Alle sette del mattino