su di lui. Avrei descritto i fatti al Duca Della Rovere, tramite una missiva il cui contenuto avevo già in mente, reclamando un giusto processo per questo poco di buono. L’ultimo dei miei desideri era quello di ucciderlo senza intervento della giustizia. Se lo avessi fatto, mi sarei messo al paro di lui. Sia mai che si dica in giro che il Marchese Franciolini è un vigliacco!»
«Potevate sempre sfidarlo a duello, ma visto che qualcun altro ha pensato a lui, avete avuto salvo l’onore e potete di certo ritenervi soddisfatto», e così dicendo Giovanni Dalle Bande Nere gettò con disprezzo la testa di Masio a terra, in prossimità dei piedi di Andrea, riprendendo subito il discorso, prima che quest’ultimo avesse modo di ribattere. «Ma c’è di più, e questa è la bella notizia per voi. Io e miei uomini stiamo lasciando San Leo. Visti i termini dell’alleanza tra i Medici e il Duca Della Rovere, non c’è più nulla da temere in questi luoghi. Nei giorni prossimi le comunità di San Leo e Maiolo ricadranno nella vostra giurisdizione. La nostra presenza è invece reclamata a Brescia. Sembra che i Lanzichenecchi si siano mossi da Bolzano e premano alle porte di questa città. I Gonzaga da un lato e i Visconti-Sforza dall’altro, si sentono in pericolo, essendo il grosso delle forze Veneziane in questo momento impegnate in Dalmazia a respingere gli attacchi degli Ottomani. Il Della Rovere, da solo, non riesce a tener testa a quelle bande di soldatacci, e nessuno vuole che, dietro costoro, giunga l’esercito di Carlo V d’Asburgo a minacciare città come Milano, Firenze o, peggio, Roma. C’è bisogno dei miei soldati di ventura, e il nostro comune amico, Francesco Maria, lo ha ben capito!»
Se non fossi in queste condizioni, di certo il Duca avrebbe convocato me e i miei uomini a combattere al suo fianco, piuttosto che questo sanguinario con la faccia da angioletto, si disse Andrea tra sé e sé, guardandosi bene dall’esprimere questo suo pensiero. Ma, in fin dei conti, forse ora è meglio così. Via il Medici, questi territori al momento sono tranquilli e io potrò, appena possibile, far rientro a Jesi e sposare la contessina Lucia.
Gettò un ultimo sguardo alla testa di Masio, ne ebbe pietà, la raccolse e la rinfilò dentro la cesta, chiudendola con il coperchio, poi si rivolse a Giovanni.
«Sono contento per voi, Messer Ludovico», e rimarcò la voce su questo nome, conscio di come fosse sgradito alla persona che gli era davanti essere chiamato così. «Vi ringrazio di tutto e vi auguro buona fortuna.»
Detto questo, si rigirò, balzò in sella al cavallo, raggiunse Piero e Bono, che erano rimasti fino a quel momento silenziosi spettatori, e si riavviò al loro fianco verso la rocca, spronando la cavalcatura a passo veloce.
«Uno sbruffone, non c’è che dire!», si lasciò sfuggire Piero di Carpegna.
«Già!», replicò Bono.
«Lasciate perdere», intervenne Andrea. «Non ci darà più fastidio, e questo è l’importante. Piuttosto, fate recuperare la cesta con la testa di Masio. Voglio che gli venga data una degna sepoltura. Non sopporto davvero che qualcuno si sia preso la briga di fare giustizia per me, e non voglio che si dica che io abbia accettato con piacere l’esecuzione sommaria di quel vile. Vigliacco era in vita e vigliacco rimane. Ma io non sono pari a lui!»
«Ed è vero!», rispose ancora Piero. «Avete un animo nobile e generoso, e tutti noi lo apprezziamo. Provvederemo a far sistemare i resti mortali di Masio. Anzi, manderemo qualcuno anche a cercare il resto del corpo, dopo che Giovanni Dalle Bande Nere avrà lasciato San Leo.»
CAPITOLO 3
Eleonora era bellissima. Il suo corpo nudo, semi abbandonato sul letto, imperlato di sudore, rifletteva le fiamme del camino, assumendo una colorazione ambrata, che ravvivava di nuovo il desiderio di Francesco Maria. Far l’amore con la sua sposa era molto più appagante che farlo con una servetta o, peggio, con una sgualdrina. Allungò una mano a sfiorarle un capezzolo. Lo sentì drizzarsi sotto il suo tocco delicato, poi vide Eleonora muoversi, risvegliarsi dal torpore e protendersi di nuovo verso di lui. Le bocche si unirono in un lungo bacio. Un incontro di labbra, di lingue, di corpi nudi ardenti di unirsi di nuovo, in un intreccio di lunghi capelli, biondi quelli di lei, scuri quelli di lui. Prima di penetrare di nuovo sua moglie, il Duca infisse i suoi occhi scuri, quasi neri, in quelli azzurro mare di lei.
«Ti amo», le sussurrò, rendendosi conto che quelle due parole, all’apparenza così semplici e scontate, non le avrebbe pronunziate in presenza di alcun’altra donna. Per tutta risposta, Eleonora prese il suo viso tra le sue mani calde, accarezzò la sua barba ruvida, accompagnandolo a distendersi supino sulle lenzuola di lino. Poi si mise a cavalcioni sopra di lui, facendo scivolare il suo membro turgido tra le sue cosce. Francesco Maria era in estasi. Gli piaceva moltissimo che fosse lei a prendere l’iniziativa. Guardava Eleonora dal basso dondolare sopra di lui, in un crescendo sempre più serrato di movimenti altalenanti, in un ritmo sempre più veloce e incalzante. Gocce di sudore, dalla fronte di lei, giungevano a imperlargli il petto, le gote, la fronte. Spinse le sue mani di guerriero lungo i fianchi della sua indomita puledra, fino a raggiungere i seni, per iniziare a carezzarli con movimento circolare. Sentì Eleonora eccitarsi ancora di più, sentì il suo fiato ansimante tramutarsi quasi in un grido di piacere. Capì di non poter più trattenersi e inondò il ventre della sua donna che, raggiunto l’orgasmo, gridò ancor più forte, poi si fermò e si accasciò sopra di lui, facendo in modo che il suo membro ancora non abbandonasse le spire del grembo di lei. Francesco sospirò, sazio della nottata d’amore, attese che l’erezione pian piano terminasse, poi scostò con delicatezza l’inerme corpo femminile. Sapeva bene che dopo il terzo amplesso, Eleonora si addormentava profondamente. Si assicurò che il suo respiro fosse regolare, ricoprì il suo corpo nudo con il lenzuolo, e si alzò dal letto, infilandosi le calze braghe. Portò alla bocca un paio di acini di dolce uva bianca poi, pensieroso, si avvicinò alla finestra ammirando i riflessi argentei della luna sulle acque del lago. Erano alcuni mesi che era ospite nel castello scaligero di Sirmione, un castello circondato dalle acque su tutti e quattro i lati e costruito in posizione strategica, sulla riva meridionale del Lago di Garda, dai Signori di Verona, proprio per contrastare i temibili nemici che immancabilmente scendevano dalle Alpi, lungo la vallata del fiume Adige. E in quel periodo il nemico era ancor più temibile, perché anziché essere costituito da un esercito regolare, era composto di sanguinarie bande armate di tedeschi, che venivano chiamati Lanzichenecchi, e che combattevano a tutto vantaggio dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, ma lo facevano a modo loro. Le acque del lago erano tranquille in quella notte di metà Novembre e il paesaggio circostante, illuminato dalla luna e sovrastato dalle sagome delle montagne, era davvero suggestivo. Dalla finestra, Francesco Maria poteva gettare lo sguardo sulla darsena sottostante, un ampio piazzale dalla forma di quadrato irregolare, delimitato dalle mura del castello e invaso dalle acque del lago. Attraverso un’apertura della cinta muraria, imbarcazioni anche di una certa stazza potevano trovare rifugio sicuro all’interno. La darsena era il luogo di stanza per la flotta scaligera, una flotta che difficilmente avrebbe visto il mare aperto, considerando che il lago non aveva emissari navigabili comunicanti con le rive dell’Adriatico. Solo attraverso una serie di complicate manovre lungo canali d’acqua artificiali e campi allagati le imbarcazioni potevano essere trasferite alla grande darsena presso la Cittadella armata della città di Mantova. Da qui, attraverso il Mincio, si poteva poi raggiungere con facilità il grande fiume Po, l’antico Eridano, e alfine navigare verso i territori Veneziani e verso il Mare Adriatico.
Guardando oltre le mura di settentrione, Francesco Maria, al momento, poteva osservare solo placide acque, punteggiate qua e là di scafi, e baluardi montuosi, le cui cime avevano già cominciato a ricoprirsi della prima neve. Ma il nemico poteva comparire all’improvviso, da un momento all’altro, e il Duca non era contento che sua moglie Eleonora e il suo seguito fossero lì. Sì, da un lato era felice di poter godere della sua compagnia e degli incontri amorosi come quello appena conclusosi, ma dall’altro temeva per la sua incolumità. Erano passati quasi vent’anni da quando si erano sposati. Certo, erano solo due ragazzini quindicenni al tempo del matrimonio, un matrimonio politico che aveva rafforzato l’alleanza tra le famiglie Urbinate e Mantovana, ma le occasioni di stare insieme erano state davvero poche. Lei a Mantova, alla corte dei Gonzaga, e lui nelle Marche a combattere e