dal giorno delle nozze, e quegli ultimi due mesi erano stati il primo vero periodo in cui Francesco Maria aveva potuto godere della sua vicinanza. Dal momento che la famiglia era riunita, si poteva anche pensare di mettere in conto qualche altro figlio, magari qualche femmina, in modo da nulla togliere al suo primogenito Guidobaldo. Ma sembrava che, nonostante i frequenti incontri amorosi degli ultimi tempi, Eleonora non accennasse a rimanere incinta. Che fosse ormai troppo anziana per procreare ancora? Ma no! In fin dei conti aveva trentatre anni, non era più una ragazzina, ma era di certo ancora in età fertile. In tutto questo, il cuore gli suggeriva da un lato di tenere la moglie accanto a sé, per poter godere del suo amore e della sua presenza, dall’altro di rispedirla a Mantova per proteggerla dagli orrori di un’eventuale battaglia contro i famigerati Lanzichenecchi. Oltre tutto, era giunta proprio in quei giorni la notizia della morte del Papa Adriano VI, che era stato prontamente sostituito al soglio pontificio da Giulio De’ Medici, con il nome di Clemente VII. Non che fosse un evento inaspettato. Francesco Maria aveva previsto questo e i suoi emissari avevano lavorato per stringere patti con il Medici, ancor prima che fosse stato eletto Papa. Ma quello che lo preoccupava, e per cui non riusciva a dormire la notte, neanche dopo un appagante incontro con la bella Eleonora, era come avrebbe reagito Carlo V alla nuova situazione. Si sarebbe mosso, certo si sarebbe mosso su più fronti, in maniera ufficiale contro la Francia di Francesco I Valoise, contro il suo nemico di sempre, in maniera meno ufficiale facendo dilagare i Lanzichenecchi nell’Italia Settentrionale al fine di soggiogare Milano e mirare a Firenze e Roma, per riunire tutti i territori italiani, oltre quelli già posseduti di Napoli, Sicilia e Sardegna, sotto l’unica corona imperiale. Non sarebbe stato facile impedire all’esercito germanico, una volta spianata la strada dai Lanzichenecchi, di raggiungere Roma, metterla a ferro e fuoco e arrivare alfine alla città di Napoli, alleata di Carlo V. C’era solo da sperare nel valore e nell’intraprendenza di Giovanni Ludovico De’ Medici. E del suo uomo, che stava aspettando con ansia di giorno in giorno, il suo fido Marchese dell’Alto Montefeltro. A interrompere lo scorrere dei pensieri di Francesco Maria fu l’avvistamento della sagoma di un’enorme imbarcazione, un trealberi battente bandiera della Repubblica Serenissima, che dalle acque del lago reclamava l’apertura della porta d’accesso alla darsena. Mentre le guardie, dal camminamento della ronda, mettevano in atto la serie di complicate manovre che avrebbero permesso l’apertura della porta, il Duca si rese conto che, accanto allo stendardo raffigurante il leone di San Marco, disteso e con il classico libro aperto tra le zampe, ve ne era un altro più piccolo su cui campeggiava un leone rampante coronato. Era stato grazie ai raggi della luna che era riuscito a distinguere i disegni delle bandiere pur nel buio della notte. Il suo cuore era finalmente più sollevato. Quella bandiera era il segnale che aveva convenuto con i suoi uomini. Stava arrivando il Marchese Franciolino Franciolini, o meglio, il suo più fidato Capitano d’armi, Andrea Franciolini da Jesi. Col cuore in gola, si terminò di rivestire e scese in fretta le scale, per raggiungere un ampio salone e disporsi in impaziente attesa. Terminate le manovre di attracco, chi scendeva dalle imbarcazioni, doveva per forza entrare in quella stanza. Il Duca fece chiamare alcuni domestici, che provvidero a imbandire la tavola al fine di accogliere a dovere i nuovi arrivati. Anche se l’ora era tarda, dopo un lungo viaggio, trovare di che rifocillarsi era di certo gradito a chiunque.
I primi a sbarcare furono i servitori, che provvidero ad accatastare sul molo bauli ed effetti personali dei nobili guerrieri che avevano accompagnato in navigazione. La servitù del castello si precipitò fuori, sia per trasferire i bagagli di ognuno nelle stanze già assegnategli, sia per indirizzare i servi appena sbarcati verso le ali del castello loro riservate, affinché potessero rifocillarsi, riposarsi e, se avessero voluto, approfittare della compagnia di qualche sgualdrina. Subito appresso scesero a terra i marinai, che furono tosto indirizzati verso le aperture che davano accesso al centro abitato di Sirmione, sul lato meridionale delle mura della darsena. Essi non vedevano l’ora di raggiungere le bettole, per banchettare, bere vino e adescare qualche bella paesana. Le donne delle terre Venete e Lombarde erano infatti rinomate in tutta la penisola per essere amanti appassionate e sempre disponibili. E poi parlavano con quell’idioma cantilenante che avrebbe aperto il cuore anche al più burbero dei marinai. E il tutto per pochi denari, molto meno di quello che si era abituati a pagare in altre zone per i favori sessuali di certe donzelle.
Gli ultimi a scendere dalla grande imbarcazione furono i nobili guerrieri, ognuno scortato dai propri attendenti. Uno dopo l’altro, varcavano la soglia dell’ampio salone dove venivano accolti dal Duca Della Rovere, che li invitava a congedare i sottoposti e sedersi alla tavola imbandita. Presto sarebbe stata festa, il cibo non sarebbe certo mancato e il vino sarebbe scorso a fiumi. A un cenno del Duca, alcune ancelle dalle colorate vesti trasparenti, che nulla lasciavano all’immaginazione, iniziarono a danzare sinuosamente su un lato della sala, al ritmo di una nenia richiamante atmosfere esotiche. Donne prese prigioniere e rese schiave durante le campagne della Serenissima contro l’impero ottomano. Donne che provenivano dalle terre del Vicino Oriente e che sapevano far danzare il loro ventre in maniera indipendente dal resto del corpo. A un secondo cenno del Duca, le ragazze si liberarono delle tuniche colorate e mantennero indosso solo minuscoli costumi a coprire seni e pube. La musica cambiò e le giovani ancelle, una più bella dell’altra, una più sensuale dell’altra, iniziarono a esibirsi nella provocante danza del ventre. Intanto i servi riversavano sopra la tavola imbandita ogni ben di dio, dai pasticci di lepre, all’arrosto di cinghiale, dalla selvaggina in agrodolce, ai conigli in salmì, alle verdure dai colori variegati, ai brodi di pollo e di manzo aromatizzati alle spezie. Le brocche di vino non facevano in tempo a fare la loro comparsa in tavola che già dovevano essere sostituite con altre piene.
Francesco Maria passava in rassegna i visi dei suoi ospiti. Il Duca di Orvieto, con una coscia di pollo in mano e un boccale di vino nell’altra, si era già avvicinato a una delle danzatrici, lanciando baci con le labbra unte in direzione di lei. Quella, per tutta risposta, si era liberata della parte superiore del costume ed era rimasta a seno nudo, continuando la danza in maniera ancor più provocante. Il Marchese di Villamarina, dal canto suo si era accomodato al desco, con la seria intenzione di mangiare e bere a sazietà, quasi infischiandosene dello spettacolo di danza. Scuoteva però la testa al ritmo della musica. Messer Vittorio dei Gherardeschi, Conte della Caccia e Signore delle terre di Polverigi, si guardava intorno un po’ smarrito, come se tutto quello che stava accadendo nel salone non lo riguardasse affatto. Si avvicinò a Francesco Maria, lo salutò con rispetto e chiese di essere accompagnato nei suoi alloggi, in quanto era molto stanco e voleva riposare. Il Duca Della Rovere aveva scrutato tutti, ma non era riuscito ancora a individuare Andrea. Quest’ultimo, in maniera del tutto inaspettata, entrò a un certo punto nel salone dall’ingresso opposto a quello da cui erano entrati tutti gli altri, quello utilizzato da chi proveniva dalla terraferma, dal centro abitato di Sirmione. Andrea appariva provato, era molto pallido e aveva gli occhi cerchiati di scuro.
«Mio Dio, Andrea! Sembra proprio che le navi siano il tuo peggior nemico!», e così dicendo Francesco Maria si avvicinò al suo amico, stringendolo in un affettuoso abbraccio. «Per fortuna ho altri progetti per te, e domani ne parleremo in tutta tranquillità. Ora accomodati e godi appieno della mia ospitalità. Potrai rinfrancare corpo e spirito, e domani ti sentirai un altro uomo!»
Vide Andrea guardarsi intorno, ammirare la tavola imbandita, gettare lo sguardo sulle danzatrici orientali che, ormai quasi tutte a seni scoperti, qualcuna anche del tutto nuda, si concedevano alle voglie represse dei nobili guerrieri. Poi il giovane Capitano d’armi si avvicinò alla tavola, piluccò qualche oliva in salamoia, bevve una coppa di vino ed espresse il desiderio di congedarsi.
«Raccontami del viaggio, Andrea! Come mai sei sceso dalla nave e sei giunto fin qui da terra?», provò a trattenerlo Francesco.
«Mio caro amico, lo hai detto tu stesso poco fa. Ne parleremo domani con calma. Ora sono molto stanco e desidero solo ritirarmi per riposare.»
«Vuoi che ti mandi compagnia in camera? Quelle bellezze esotiche sono in grado di far resuscitare un cadavere!»
«Ma non me. In questo momento non sarei in grado di sfiorare una donna, che non sia la mia promessa sposa, neanche con un dito. Fai conto che abbia accettato la tua offerta e porta la ragazza in camera con te.»
Francesco Maria scoppiò in una risata.
«Non posso!