CAPITOLO 4 “ Ognuno è quello che persegue.
Io sono quel che sono, sono quel che amo,
amo quel che sono.”
(Elio Savelli)
Andrea ancora non riusciva a capacitarsi del perché aveva seguito senza batter ciglio gli uomini del Duca, proprio pochi istanti prima della cerimonia di nozze con la sua amata Lucia. Il suo potente destriero bianco, ancora agghindato a festa, mordeva la strada, senza faticare affatto a star dietro agli armigeri che si dirigevano di gran carriera oltre l’Esino, verso Monte Returri. La cavalcata era agevole, senza bardature, senza neanche la celata in testa. La folta capigliatura bionda di Andrea accarezzava l’aria svolazzando. Le maniche del farsetto cremisi si gonfiavano e si sgonfiavano ai capricci del vento. Ma la mente di Andrea era in subbuglio. Pensieri incapaci di essere tenuti a freno si affollavano nella sua testa e si affacciavano prepotenti verso le tempie, con la speranza di essere presi nella giusta considerazione. «Hai sempre perseguito la speranza di poterti unire in matrimonio con Lucia. E ora che era finalmente giunto il momento, che fai? La abbandoni lì, sul sagrato della Chiesa!», lo iniziava a torturare il primo pensiero. «Ricorda, Andrea! Ognuno è ciò che persegue nella vita! Non raggiungere i propri obiettivi significa fallire miseramente.» «Io sono quel che sono!», si difendeva Andrea nei confronti di se stesso. «Amo essere ciò che sono. E sono un uomo d’armi, e come tale devo obbedienza a chi mi comanda. Quindi ho fatto la scelta giusta. Non ci si può sottrarre al proprio dovere per causa di una donzella.» «Tu ami ciò che sei, ma sei anche ciò che ami», lo rintuzzava un secondo pensiero, senza dargli tregua, in un incredibile gioco di parole. «E chi ami è Lucia. Con lei dovresti essere un unico corpo e un’unica anima. Che differenza c’era nel seguire questi uomini adesso, nell’immediato, piuttosto che domani, o domani l’altro o fra una settimana? E la tua bambina, Laura, a cui hai regalato sorrisi fino a questa mattina, facendole capire che adesso poteva confidare sull’affetto di un padre, che cosa penserà di te? Che sei un vigliacco, che ti sottrai all’amore e agli affetti a seconda di come gira il vento. Non era lecito almeno spiegarle perché te ne stai andando?» «Non sono una femminuccia, sono un Capitano d’armi!», replicava con vigore lo spirito guerriero di Andrea. «Se questi uomini avevano una gran fretta di condurmi con loro, un motivo deve esserci, e ben grave, da quello che ho potuto leggere sulla missiva inviatami dal Duca. Un guerriero non si sottrae al suo dovere. Mai! Tanto meno per questioni d’amore. L’amore può aspettare, il nemico no.» Immerso in queste disquisizioni mentali, Andrea non si era neanche accorto che, superata la torre di guardia in cima a Monte Returri, il drappello di soldati cui stava appresso, attraversato il breve centro abitato di Santa Maria delle Ripe, si stava dirigendo, in veloce discesa, verso la vallata del Fiume Musone. Mise a tacere tutti i pensieri e si concentrò sul percorso. Se si dovevano dirigere verso Mantova, la strada da seguire non era certo quella, che piegava verso meridione. Logica avrebbe voluto che si percorresse la strada Fiammenga fino a Monte Marciano e poi si risalisse lungo le coste Adriatiche, fino a Ravenna, per poi piegare verso Ferrara. E da lì raggiungere Mantova in maniera agevole, senza difficoltà alcuna. La strada che stavano percorrendo portava dritti al Castello Svevo del Porto, a sud del monte di Ancona, tra la foce del fiume Musone e quella del Potenza. Un castello fatto edificare a suo tempo da Federico II a difesa e baluardo di un importante porto in cui far stazionare la flotta ghibellina. Al solo pensiero del mare, Andrea ebbe un conato di vomito. E ben presto, in effetti, la vallata del Musone si allargò verso il mare Adriatico. Lasciata sulla loro destra, in alto sulla collina, l’imponente basilica di Loreto, dedicata al culto della Madonna e protetta da possenti bastioni, Andrea e i suoi compagni seguirono un ampio stradone per alcune leghe, giungendo in vista della loro meta. La sagoma del castello Svevo, con il suo imponente mastio che svettava verso il cielo, si avvicinava veloce. Il sole stava ormai calando verso l’orizzonte e, mettendo al passo le cavalcature, si poteva ascoltare il rumore della risacca e annusare l’odore salmastro portato dal vento. Il tramonto incendiava il cielo di un rosso acceso, sfumante in tonalità di arancione laddove il sole stava nascondendosi dietro la linea dell’orizzonte, marcata dai monti dell’Appennino. Scene e colori che avrebbero infuso il sentimento della nostalgia nel cuore di qualsiasi persona, figuriamoci in quello di Andrea, già in subbuglio per tutta la vicenda che stava vivendo. Avrebbe voluto rigirare il cavallo e tornare di corsa a Jesi, alla sua amata, alla sua casa, ai suoi affetti. Ma ancora una volta, i nitriti dei cavalli e le grida degli armigeri lo riportarono alla realtà. Erano dinanzi all’ingresso principale del castello, in un grande spiazzo quadrangolare che, dal lato opposto, si apriva verso il mare. Mentre i suoi accompagnatori lanciavano grida alle guardie agli spalti, per farsi riconoscere e far calare il ponte levatoio, Andrea scrutò il porto. Il mare era calmo, piatto, quasi una tavola. Alcune stelle già brillavano in cielo, un cielo che stava assumendo i toni del turchese e che presto sarebbe divenuto ben più scuro, avvolgendo cose e persone nel nero mantello della notte. La sagoma di un’enorme imbarcazione, un trealberi, colpì l’attenzione di Andrea. In vita sua non aveva mai visto un vascello così grande. E la paura che l’indomani vi sarebbe dovuto salire sopra attanagliò il suo cuore. Sull’albero più alto, quello centrale, sventolava lo stendardo della Repubblica Serenissima, un leone disteso, il leone di San Marco, con un libro aperto, il Santo Vangelo, tra le zampe anteriori. Quando il ponte levatoio fu disceso e le enormi ante del portale si aprirono, il capitano delle Scolte di guardia al castello uscì e si avvicinò ad Andrea, porgendogli un drappo ripiegato. Si piegò al suo indirizzo in un ossequioso inchino e gli porse lo stendardo. Andrea scese da cavallo, fece cenno alla Scolta di sollevarsi dalla posizione di riverenza e prese l’oggetto dalle sue mani. Dispiegò il drappo, in cui, su fondo di stoffa rossa, era stato realizzato, a fine ricamo, il disegno dorato di un leone rampante ornato della corona regale in testa. «Mio Signore, Marchese Franciolino Franciolini, combatterete sotto il segno del leone!», iniziò a proferire il luogotenente. «Consegnerete domattina questo stendardo all’equipaggio della nave, che provvederà a issarlo sul pennone, a fianco della bandiera della Serenissima. Il Duca Francesco Maria Della Rovere ha dato precise disposizioni. Il leone rampante, simbolo della Vostra città, ma anche di Federico II di Svevia, che concesse a suo tempo di ornarlo della corona imperiale, sarà il simbolo della Vostra forza e della Vostra autorità.» La Scolta si interruppe e si fece consegnare una pergamena da un altro soldato, che era rimasto dietro di lui, a breve distanza. «Il Duca Francesco Maria Della Rovere vi nomina peraltro, come scritto in questa pergamena, Gran Leone del Balì, titolo che vi conferisce grandi poteri e la possibilità, anzi il dovere, di affiancare il comandante veneziano sul ponte del galeone da combattimento.» Così dicendo, arrotolò la pergamena e la consegnò nelle mani di Andrea. «Domattina all’alba salirete a bordo con i vostri uomini e consegnerete le credenziali al “Capitano da Mar” Tommaso de’ Foscari. Due leoni e due capitani d’arme saranno uniti contro comuni nemici, da un lato i Turchi del Sultano Sèlim, dall’altro i Lanzichenecchi teutonici. Il Duca Della Rovere confida nel fatto che terrete alto l’onore dovuto alla vostra bandiera e a quella della Repubblica Serenissima, nostra alleata. E ora, mio Signore, permettetemi di condurvi alle vostre stanze per adire a un meritato riposo. Domattina sarete svegliato di buon ora, ancor prima del sorgere del sole.» Andrea era confuso, non sapeva cosa dire, e così rimase in silenzio. Certo il suo amico Duca sapeva lusingarlo con le onorificenze, ma così facendo trovava sempre il modo di mandarlo allo sbaraglio. Il fatto di imbarcarsi su una nave non gli garbava affatto, ma ormai era giunto fin lì e non poteva più di certo tirarsi indietro. La notte si girò e si rigirò tra le lenzuola, riuscendo a dormire poco o niente. Quando sprofondava nel sonno, era assalito da incubi che richiamavano