Morenz Patricia

Per Sempre È Tanto Tempo


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in molte occasioni – specialmente quando suo marito, il Sig. Johnson, era presente. Infatti, tutti erano più riservati intorno a lui; era un tipo duro, insegnava all’Università di New York.

      Jake mi raccontava sempre le cose per le quali i suoi genitori discutevano ogni giorno o le cose che gli diceva suo padre, paragonandolo a suo fratello, ma ci appoggiavamo l’uno all’altro e ci tenevamo a galla a vicenda. Uno aveva sempre l’altro e questo rendeva tutto migliore.

      «Ora del silenzio?» chiesi divertita.

      Non era mai un silenzio imbarazzante. Ci piaceva stenderci sul freddo pavimento di legno e semplicemente ascoltare il nulla, sostenerci a vicenda senza dire una parola.

      Sentii il suo respiro agitato, stavolta qualcosa era cambiato.

      «No» affermò deciso. «Voglio dirti qualcosa …»

      Vidi il dubbio nei suoi occhi, anche se non ne conoscevo il motivo.

      «Sai che puoi dirmi qualunque cosa» assicurai, con il presentimento di qualcosa di serio.

      «Io …» non riusciva a continuare la frase e i suoi occhi vagavano tra il mio sguardo e il pavimento.

      «Dillo e basta» lo incoraggiai, avvicinandomi e mettendomi proprio di fronte a lui.

      «Io … non posso dirlo … a parole …» sussurrò.

      Altri dubbi si accumulavano nei suoi occhi a ogni secondo che passava, ma prima che potessi intervenire di nuovo, annullò i pochi centimetri che ci separavano e stampò le sue labbra sulle mie. Entrambi chiudemmo brevemente gli occhi e poi ci tirammo indietro subito. I miei occhi erano spalancati sicuramente con uno sguardo da cosa-diavolo-è-successo, mentre vedevo Jake deglutire con difficoltà, ma sosteneva il mio sguardo aspettando la mia reazione.

      «Ti è piaciuto?» borbottò, incerto.

      Mi era piaciuto? Di cosa diavolo stava parlando? Non sapevo nemmeno che cosa era appena successo. Nella mia testa si era scatenata una tempesta di pensieri, ma non riuscivo a smettere di guardarlo.

      «Jocelyn!» gridò la mamma di Jake da sotto l’albero, facendoci trasalire e interrompere il contatto visivo, «Jocelyn, tesoro, tua madre ha chiamato, ha detto di andare immediatamente a casa.»

      La Sig.ra Johnson era molto seria e il mio stomaco si chiuse ancora di più. Mamma non faceva mai così, io tornavo sempre all’orario stabilito, ma non avrei verificato nulla se prima non arrivavo a casa.

      Iniziai a scendere senza dire una parola, seguita a prudente distanza dal mio amico.

      «A domani, Sig.ra Johnson» dissi timidamente. «Ciao, Jake» pronunciai appena, uscii rapidamente da un lato della casa.

      Appena raggiunto il marciapiede, iniziai a correre con le mie scarpe da ginnastica nere, non sapevo se perché ero preoccupata di arrivare a casa e verificare cosa mamma voleva da me, o perché stavo scappando, da cosa? Non ne avevo idea. Sapevo solo che il mio migliore amico mi aveva baciata ed io non riuscivo ancora a rendermi conto di cosa significava.

      Jake era il mio migliore amico. Era? … Non so perché non dissi: É.

      Non sapevo se era giusto. Cavolo, no, non era giusto. Eravamo appena due bambini, o no? Anche se il suo bacio non aveva malizia, al contrario era stato così dolce … ed anche impacciato, una goffaggine dolce.

      Non sapevo come lo avrei affrontato a partire da quel momento, ma non dovetti nemmeno farlo, perché quella sera stessa lasciai la città.

      CINQUE ANNI DOPO

      Appena metto un piede fuori di casa, mi viene voglia di tornare sui miei passi, mettermi a letto, nascondere la testa sotto le coperte e pregare che il tempo torni indietro. Sì, questo andrebbe bene.

      Posso quasi vedere Jake passare da casa mia per andare insieme alla fermata dell’autobus della scuola. Quasi … ma non oggi. Mi chiedo se sa già che sono tornata, se conosce le ragioni per le quali me ne sono andata e cosa più importante perché sono tornata.

      Scendo i cinque gradini, arrivo sul marciapiede e osservo entrambi i lati della via, ma non c’è alcun segno di lui. Forse è meglio, non saprei cosa dirgli, come spiegare il mio silenzio durante tutti questi anni.

      Inizio a camminare di nuovo guardando il terreno e mi rendo conto che indosso delle scarpe molto simili a quelle che avevo il giorno che me ne sono andata cinque anni fa. Quante cose sono cambiate da allora.

      Alzo gli occhi al cielo sperando di trovare la consolazione che tanto mi manca. A New York è un giorno piacevole, con cieli sereni e persone di buon umore; per lo meno a me sembra sia così, dato che contrastano con la mia presenza ombrosa. Non è sempre stato così, il mio colore preferito era il giallo. Mi ricordava i giorni di sole. Per questa ragione lo usavo molto in inverno.

      Oggi non so cosa mi aspetta, ma andrò là. Non può essere così male, giusto? Iniziare la scuola superiore senza nessun amico. Forse Jake sarà lì e mi odierà. Sì, sarà fantastico. Quello che ogni adolescente spera. Forse no.

      Mi concentro sul suono delle suole delle mie scarpe che pestano il terreno, sulla mia respirazione intermittente, sulle ombre delle persone che mi passano a fianco, sui piccoli insetti che trovo a ogni angolo. Sì, sarà una giornata fantastica. Lo ripeto come un mantra.

      Sono così concentrata che quando uno stupido suona il clacson della sua auto troppo vicino a me, mi vedo saltare in aria, come un gatto quando viene aperta una scatoletta di umido. Impreco a bassa voce ricordandomi di tutti i suoi antenati e della sua discendenza, ma alla fine guardo davanti a me e tutta l’aria abbandona i miei polmoni. È lui.

      Jake è alla fermata dell’autobus e guarda davanti a sé. Dove sono le mie coperte quando ne ho bisogno? Diminuisco la velocità dei miei passi senza avere idea di cosa dirò quando arriverò al suo fianco. È da solo, stringe forte le cinghie del suo zaino sul petto. Poi abbassa lo sguardo e, senza sapere come, finalmente mi trovo alla sua sinistra. Ho di nuovo un anno e sto imparando a parlare, spero che in lui sia rimasto ancora qualcosa del mio migliore amico.

      Ingoio la pallina da tennis che attraversa la mia gola e alzo gli occhi. Ora o mai più.

      «Ci … Ciao» mi esce una voce rotta, appena udibile, ma è il meglio che riesco a fare e so che mi sente perché solleva lo sguardo e nei suoi occhi vedo qualcosa che non riesco a decifrare. Dolore?

      Impiega troppo tempo per rispondere e per un momento credo che non lo farà.

      «Ciao» alla fine mia saluta e torna subito alla sua posizione originaria, come se stesse fissando direttamente il sole.

      Meraviglioso, questa era la mia strategia migliore e ora non so più cosa dire. È il momento di improvvisare.

      «Sei … grande …»

      Davvero? Ho appena detto che è grande? Quasi posso sentirlo rispondere: certo, stupida, te ne sei andata per cinque maledetti anni, certo che sono grande. Il tempo per me non si è fermato.

      «Suppongo di sì»

      Mi guarda di nuovo per un paio di secondi, studiando non solo il mio viso, ma anche il mio corpo, però non m'imbarazza. «Anche tu sei cambiata.»

      «Suppongo di sì» ripeto le sue parole come facevamo da bambini sperando di essere spiritosa, ma ottengo solo un sorriso forzato e finto sulle sue labbra.

      «Non sapevo che fossi tornata» parla con un tono di voce piatto.

      «Sono tornata da una settimana» confesso e immediatamente i suoi occhi mi fissano furiosi, ma sa trattenersi molto bene e fare finta di niente.

      So quello che gli passa per la mente. Sono tornata da una settimana. Una settimana in cui non l’ho cercato.

      «Resterai?» chiede con un qualcosa che identifico come speranza, ma non sono sicura.

      «Sì …»

      Ci guardiamo in silenzio per qualche secondo finché lui distoglie lo