Морган Райс

Il trono dei draghi


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persone raggiungeva il posto.

      Fu ciò che giaceva al di là che attirò l’attenzione di Nerra, però. Così lontana che era a malapena visibile all’orizzonte, scorse una costa molto più ampia di quella dell’isola, con vulcani che si ergevano sul panorama per conferire allo scenario un aspetto seghettato, dentato. Sopra ai vulcani, qua e là, vide dei punti circolari. Le ci volle un momento per realizzare quanto dovevano essere grandi, e fu solo allora che capì cosa erano: draghi.

      “Quella è Sarras,” disse Nerra scioccata. Non aveva mai visto il terzo continente, ma quell’ambiente non poteva essere nient’altro. Se era vero però, significava che il suo drago l’aveva trasportata per mezzo oceano. “Siamo a Sarras.”

      “Non proprio,” intervenne Kleos, facendo cenno al piccolo villaggio attorno a loro. “Questa è Haven. La nostra isola giace un poco distaccata dagli orrori di… quel posto.”

      “Quali orrori?” chiese Nerra.

      Kleos scosse la testa. “Questo non è un luogo per quelle cose. Questo è un luogo di pace, dove coloro che sono affetti dalla malattia possono vivere i loro giorni e incontrare una morte garbata.”

      “Una…” Nerra scosse la testa a quel pensiero. Avrebbe dovuto restare lì seduta ad aspettare di morire? “Cos’è questo posto? Una prigione? Dovrei restare qui in cattività?”

      “Questo è un luogo di rifugio,” replicò Kleos. “Dove coloro che hanno la malattia del drago possono essere al sicuro dal mondo attorno a loro, e il mondo può essere al sicuro da loro.”

      “Questa è la seconda volta che la chiamate così,” sottolineò Nerra. “È per le squame?”

      “È per ciò che diventano le persone con la malattia,” rispose Kleos e fece una pausa per un momento. “Io… Io potrei mostrarvelo, ma sarebbe meglio di no. Vivreste più in pace senza sapere cosa vi aspetta.”

      Nerra non esitò. “Mostratemelo.”

      Nessun altro era stato capace di mostrarle davvero dove l’avrebbe condotta quella malattia. Il dottore glielo aveva detto, ma non era la stessa cosa, neanche ci si avvicinava; doveva vederlo coi suoi occhi. Seguì Kleos che le fece strada verso un altro punto del villaggio, verso un edificio in pietra la cui porta pareva più massiccia delle altre. Estrasse una chiave e la aprì.

      “Dobbiamo fare attenzione qui dentro,” la avvisò. “Quelli che stanno qui… hanno poco di umano.”

      “Ma avete detto che c’erano dei modi per aiutare…” affermò Nerra.

      “Vi sono,” concordò Kleos. “Ma non lasciatevi adescare da false speranze, Principessa. Non vi è cura. Prima o poi, a prescindere da tutto ciò che faccio, si arriva a questo.”

      Fece un passo indietro per permetterle di entrare perché potesse vedere. La costruzione era ombrosa all’interno, ma l’oscurità era attraversata dai pianti e dai lamenti di coloro che la popolavano. Non c’era niente di umano in quel suono, però.

      E di certo neanche nella creatura che le si sollevò davanti. Era più robusta di un uomo, con squamose mani artigliate, denti che parevano potersi immergere nella carne e strapparla via, e tratti che si erano deformati in una specie di muso da lucertola. Il suo corpo era massiccio e malfatto, i muscoli parevano crescerle sotto alla pelle senza logica né armonia alcuna. Aveva gli occhi dell’essere umano, ma privati di qualsiasi traccia di umanità; ospitavano solo rabbia, dolore e fame. Non era più un essere umano, ma non era neanche un drago; era qualcosa che stava a metà, bloccato, incompleto, deformato dalla sua fisionomia precedente ma non ancora tramutato nella successiva.

      Balzò in avanti andandole addosso; e Nerra fu troppo lenta per schivarlo in quel momento. La massa della creatura era sopra di lei adesso, la sbatteva a terra e la osservava dall’alto minacciosa. Alzò gli artigli, pronta a colpire; e la principessa era ormai certa che Kleos l’avesse portata lì solo per farla morire, per delle ragioni che non riusciva a contemplare.

      L’uomo intervenne invece; la raggiunse con fra le mani una lama ondulata che sembrava prodotta con qualche metallo scuro e lunga quanto l’avambraccio di Nerra. La usò per affondare un colpo, prendendo la creatura dritta in petto e facendola stridere in un pianto animale. Cadde all’indietro, con gli artigli alzati come per scongiurare altri tagli, ma Kleos stava già avanzando.

      “Mi dispiace,” disse, mentre Nerra si alzava. “Quando vi ho portata qui non sapevo che questa fosse già così avanti… È… è arrivato il momento per lui.”

      “Era una persona?” chiese Nerra. Non riusciva a crederci, non voleva crederci, perché… quello significava che anche lei sarebbe finita così. “Non c’è niente che potete fare per aiutarlo?”

      “Solo una cosa adesso,” rispose Kleos e avanzò, seguendo la creatura. La sua espressione era dispiaciuta ma, nonostante ciò, non si tirò indietro dal cerchio di artigli della creatura-drago. Affondò brusco la sua lama, questa volta conficcandogliela sotto alla mascella e fino al cervello. Nerra udì la creatura emettere un sussulto che sembrava un misto di shock e sollievo; poi Kleos estrasse la lama pulita, lasciando cadere la bestia all’indietro sul pavimento.

      Restò lì in piedi per qualche secondo. In profondità nel fabbricato, Nerra udiva dei ringhi che suggerivano che vi erano altre di quelle creature… quelle persone, erano lì.

      “Aiutatemi a portarlo fuori,” disse Kleos. “Adesso ha trovato la pace e noi tratteremo il suo corpo con rispetto.”

      Nerra non sapeva da dove iniziare, quindi afferrò le gambe della creatura, aiutando Kleos a sollevarla.

      “Questa sarà…” esordì. “Io diventerò…”

      “Diventerete come Matteus qui presente?” domandò Kleos e chinò la testa. “Alcuni non vivono così a lungo. La malattia del drago li fa a pezzi; ma sì, potreste diventare così.”

      “E quando accadrà, mi ucciderete?” gli chiese.

      Il custode annuì. “Vi darò la pace quando non sarà più rimasto niente in voi che la conosce.”

      Nerra era davvero a terra adesso. Il suo drago l’aveva portata lì, l’aveva salvata, eppure adesso… adesso sembrava che l’unica cosa per cui l’aveva messa in salvo era la morte.

      CAPITOLO OTTAVO

      Lenore si augurava la morte mentre era seduta sul cavallo, con le mani legate davanti a sé e la presa di Ethir attorno alla vita a tenerla salda sul posto. Attorno a loro, gli altri Taciturni trottavano; i cavalli avanzavano in una fila quasi silenziosa e coloro che li guidavano lo facevano con le mani sullo strano assortimento di armi che portavano.

      Inizialmente aveva sperato di fuggire, ma i Taciturni le avevano dimostrato già due volte che non aveva modo di scappare da loro. L’avevano catturata senza difficoltà, imprigionandola nella locanda e acciuffandola di nuovo senza problemi quando aveva tentato la fuga. Non aveva via di scampo.

      Aveva poi sperato di essere salvata. Lenore era stata certa che sarebbe accaduto, grazie ai Cavalieri dello Sperone che cavalcavano all’orizzonte, o a Rodry, o persino a Vars insieme agli uomini che avrebbero dovuto proteggerla. Lì, all’aperto, non potevano abbattere quei dodici e sconfiggerli? Non potevano salvarla?

      Tuttavia, a ogni lega che passava, quelle speranze si affievolivano; a ogni passo dei cavalli, era più vicina ai ponti e più lontana da qualsiasi aiuto potesse ricevere. Lenore riusciva già a scorgere il più ampio dei ponti in lontananza, la sua campata si allungava sullo Slate, con un metro dopo l’altro di legno scuro.

      C’erano delle guardie all’estremità del ponte, forse una dozzina, ma a mano a mano che Lenore e i Taciturni procedevano, sapeva che non avrebbero potuto fermare una forza come quella. Quelle guardie potevano fermare i contrabbandieri o buttare giù il ponte in caso di invasione, proteggendo il regno con la furia del fiume, ma non erano abbastanza numerose da impedire che venisse portata a sud e non si aspettavano certo di dover combattere una forza proveniente da nord. La maggior parte di quegli uomini non stava neanche guardando dalla sua parte, mentre veniva scortata dai Taciturni; al contrario,