Морган Райс

La corona dei draghi


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per decidere cosa fare.

      Doveva scoprire dove si trovava la sua famiglia e cosa era successo loro. Non avrebbe potuto fare nulla per salvarli se non avesse almeno scoperto dove si trovavano. Da lì doveva cominciare, ma ne conseguì una cascata apparentemente interminabile di azioni. Avrebbe dovuto conoscere tutti i vari gruppi che popolavano il regno, chi governava dove, quali forze leali rimanevano…

      Greave stava ancora pensando a tutto ciò, quando il piccolo sentiero su cui si trovava cedette il posto a una strada più grande che attraversava un tratto boscoso. I viaggiatori cominciarono a superarlo sulla strada; alcuni si muovevano con sacchi contenenti oggetti personali, altri con armi. Tutti lo guardavano con diffidenza, tenendosi a distanza. All’inizio sussultò, pensando che avessero capito chi fosse, ma poi si rese conto che la loro prudenza aveva più che altro a che fare con il suo aspetto selvaggio, spettinato e apparentemente pericoloso.

      “Sono sulla strada giusta per la Royalsport?” gridò a uno di loro, un uomo che lottava sotto il peso di tutto ciò che era riuscito a rubare. Era un poco più alto e robusto di Greave, vestito con abiti semplici ma ben fatti.

      “È proprio quella,” rispose l’uomo, facendo un cenno con la testa nella direzione in cui stava andando Greave. Fu grato per questo, perché almeno significava che non stava sprecando energie.

      “Grazie,” disse Greave. “Sei stato molto d’aiuto.”

      Persino mentre lo diceva, vide l’altro uomo fissarlo.

      “Conosco questa voce,” affermò.

      Greave cominciò a indietreggiare un poco, mentre i campanelli d’allarme cominciavano ad attivarsi in lui di riflesso. Non voleva essere riconosciuto, non lì, non in quel momento. Fissò l’altro uomo, cercando di capire come potesse conoscerlo.

      “Quando ti ho visto, mi sei sembrato subito familiare, ma è stata la voce a darmi la conferma. Lavoravo al castello e l’ho sentita una volta, mentre recitavi delle poesie nei giardini.”

      Quelle parole gli arrivarono dritte al cuore.

      “Ti sbagli,” replicò Greave. “Tu non mi conosci.”

      L’altro uomo fece un passo avanti. “Sì, invece. Tu sei il Principe Greave.”

      La paura per essere stato riconosciuto cominciò a farsi strada in lui, ma la represse. Non poteva lasciare che quell’uomo scorgesse una qualche reazione.

      “Ti sbagli,” disse. “Cosa ci farebbe il principe Greave in una strada come questa?”

      “Non mi sbaglio,” ribatté l’uomo, fissandolo con sguardo duro adesso. “I tuoi vestiti sono troppo ricchi per un contadino qualsiasi e la tua faccia è la stessa, nonostante la barba.”

      La paura cominciò a indurirsi, trasformandosi in qualcos’altro dentro di lui. Non poteva essere scoperto, non allora, non ancora. Aveva bisogno di tempo per capire cosa avrebbe fatto e per raggiungere la sua famiglia. Se quell’uomo avesse detto a qualcuno quello che aveva visto, se ne avesse parlato con la persona sbagliata, allora Greave sarebbe stato in grave pericolo.

      “È fondamentale che non tu lo dica a nessuno,” gli confidò, capendo che non aveva più senso cercare di negare la sua identità. L’altro uomo se ne era convinto e non c’era modo di fargli cambiare idea. Cosa gli restava? Un appello alla sua lealtà? “Se ci tieni a questo regno…”

      “Quale regno?” scattò in risposta l’uomo. “Adesso è tutto in mano a Ravin e tutti gli altri reali sono stati uccisi da lui.”

      Quelle parole lo inondarono di dolore; acute e improvvise, sembrarono intorpidire qualsiasi parte di lui. Non sapeva come reagire in quel momento, non sapeva cosa dire o fare.

      “No, non può essere vero,” affermò. Non riusciva ad accettarlo, non voleva accettarlo.

      “Ho visto con i miei occhi l’esecuzione della Regina Aethe e il giorno dopo è stata annunciata la morte della Principessa Lenore e della Principessa Erin. Non ci vuole un genio per capire cosa sia successo laggiù. Taciturni.”

      “No, ti sbagli, stai mentendo,” replicò Greave, perché il dolore del suo lutto era troppo grande da sopportare. Si mischiò però con una rabbia che lo sorprese, che doveva covare da tempo.

      Avanzò verso quell’uomo, e ora aveva un coltello in mano.

      “Non sto mentendo. Sei rimasto solo tu, Prince Greave. Almeno finché qualcuno non dirà ai Taciturni dove sei.”

      Sapeva quanto fosse pericolosa quella situazione e poteva quasi sentire la voce di Aurelle suggerirgli la soluzione più ovvia, l’unica via d’uscita da tutto questo.

      Doveva uccidere quell’uomo prima che lo dicesse a qualcuno.

      Vide che iniziava a indietreggiare, ma era ancora abbastanza vicino perché Greave potesse balzare in avanti e affondargli una lama in petto. Aurelle l’avrebbe fatto, ma lui… non poteva. C’erano modi migliori per affrontare quella situazione. Poteva offrirgli dei soldi, cercare di farlo ragionare ed escogitare un modo per cavarsene fuori. Non era un assassino.

      Nell’attimo in cui Greave esitò, l’altro uomo scappò via, sfrecciando fra gli alberi. Greave lo fissò deluso e sconvolto e poi, non sapendo cos’altro fare, si mise a inseguirlo.

      CAPITOLO SESTO

      Lenore aspettava in piedi nella locanda mentre Odd la perlustrava con cautela, cercando di rilevare tutti i modi in cui qualcuno avrebbe potuto farle del male lì dentro. Lenore non era sicura di quanto ci fosse da vedere. Era una grande stanza aperta, con pochi tavoli e panche, qualche botte da uno dei lati estremi e poco altro.

      Erin, nel frattempo, era seduta accanto a lei, sorseggiava una piccola birra e mangiucchiava un pezzo di pane con del formaggio. Ogni tanto guardava Odd, e non in modo amichevole.

      “Cosa c’è che non va tra voi due?” chiese Lenore.

      Erin distolse lo sguardo, senza rispondere.

      “Erin…”

      “Non sono soggetta ai tuoi ordini, Lenore,” scattò sua sorella.

      Lenore mise una mano su quella di sua sorella. “No, ma sei mia sorella e tengo a te. Mi preoccupo per te.”

      “Non devi preoccuparti per me,” replicò Erin. “Preoccupati per chi mi intralcia.”

      Lenore sospirò. Non sapeva come placare l’ira che ardeva in sua sorella e che adesso fuoriusciva tanto spesso. Aveva un accenno della stessa emozione, ma non era impetuosa come quella che minacciava di consumare tutto ciò che circondava Erin.

      Non riusciva a pensare a niente che potesse dire o fare per aiutarla. Forse, se fossero riusciti a riconquistare il regno, quella rabbia si sarebbe placata, ma Lenore sapeva quanto fosse lunga la strada per arrivare a quel punto ed era cosciente di non poter tenere Erin per mano per tutto il tragitto. Doveva solo sperare che la sua presenza fosse sufficiente.

      Intanto, le persone cominciavano ad affluire alla locanda. Uomini e donne che accedevano singolarmente o a coppie. Non erano molti, perché non era un grande villaggio, ma bastarono a riempire lentamente la taverna, costipandola come accadeva nella grande sala del castello in occasione degli incontri. Le persone lanciavano occhiate a Lenore e sua sorella; ovviamente, dopo aver sentito chi erano, si erano recate lì per capire cosa sarebbe successo, anche se non ci credevano del tutto.

      In un villaggio come quello, radunare le persone era la parte più facile. Lenore rappresentava qualcosa di interessante da vedere e magari di cui parlare più tardi. Sfruttare al meglio quel momento era la parte difficile. Era come lanciarsi nel vuoto, perché non poteva prevedere che risvolti avrebbe avuto.

      Questo rendeva le parole che Lenore stava per dire le più importanti di qualsiasi altre avesse pronunciato nella sua vita. In verità, cominciava a capire che la maggior parte delle cose che aveva detto o fatto prima non lo era affatto.

      Fu una realizzazione difficile. Per gran parte della sua vita, aveva pensato di essere una persona responsabile, che faceva la cosa giusta essendo la principessa che tutti si aspettavano, ma quanto di buono aveva davvero fatto per