invitato ad applaudire, si rese allo invito, ed applause. Coloro, che primi lo invitarono, per certo a fine di bene, non avvertirono come sia più agevole sprigionare i venti dall'otre di Ulisse, che ricacciarveli dentro, e come, appellato il Popolo una volta in piazza ad approvare, bisognava sopportarlo quando spontaneo avrebbe disapprovato più tardi. Fu in quel tempo, che considerando io come il Popolo ricevuto cotesto impulso non si sarebbe rimasto soddisfatto alla Legge della stampa, ma avrebbe richiesto cose maggiori mano a mano che gliene fosse venuto il desiderio; nè essere senza grandissimo pericolo per l'Autorità esporsi a lasciarsi svellere ora questa concessione, ora quell'altra, imperciocchè, così operando, il potere non acquista il merito del pronto concedere, e il Popolo si educa a crescere più intemperante nelle domande; fu, dico, in quel tempo ed in questo concetto, che dettai il libro Del Principe e del Popolo, il quale prima di stampare sottoposi allo esame di Magistrato per altezza di mente distinto, e fu tenuto allora non indegno dei casi consigliere discreto di quelli ai quali m'indirizzavo, presago poi delle sopravvenute vicende. Era mio conforto al Governo ritirarsi indietro dallo immediato contatto del Popolo minuto, concedendo subito quanto reputava prudente, riacquistare credito, e temprato per nuova opinione, prendere tempo a ricostruire gli arnesi necessarii di Governo. Questo non volle fare il Ministero; lasciò che gli eventi lo strascinassero legato dietro il carro. Di qui gratitudine poca, esitanza a concedere crescente, su le labbra concordia, in cuore sospetto.
Gli agitatori, i quali dapprima non furono i demagoghi, chè questi vennero in fondo, ma sì uomini chiari per fama, e per condizione cospicui, ottennero le riforme da loro reputate sufficienti. Giusta il costume antico di quelli che commuovono le moltitudini, pretesero allora, ch'esse posassero; contenti loro, contenti tutti. Il Popolo minuto, poco soddisfatto della Legge sopra la stampa perchè non legge, nè della Guardia Civica perchè n'era escluso, continuò ad agitarsi per conto proprio.
Giuseppe Mazzoni deputato, con molta verità accennava a questo con le parole profferite nella Seduta del Consiglio Generale toscano del 16 ottobre 1848: «Però le agitazioni anteriori al settembre dell'anno passato, le quali non si disapprovavano nemmeno da certi alti personaggi, furono generalmente riguardate come politiche necessità; e s'esse non erano, l'antica Babele della Polizia non sarebbe espugnata, e le libertà dello Statuto, che tutti stimiamo carissime, sarebbero tuttora un sogno.»[6]
Io però non dubito punto affermare, che i Toscani di natura contentabile, acquistate le libertà costituzionali, sarebbonsi tenuti soddisfatti, se anche sopra di loro non fosse passato il vento che sconvolse l'Europa intera dal Mediterraneo al Baltico, dall'Atlantico al Mar Nero, e minacciò portar via, come la polvere di una strada maestra, i troni di Vienna, di Berlino, di Roma, di gran parte della Germania, e d'Italia, nella guisa stessa che disperse quello di Francia; ed in ispecie poi il prossimo incendio di Sicilia, di Milano, e di Venezia, la guerra della Indipendenza prima, poi i disastri della guerra.
Per la rivoluzione di Francia si diffuse la idea della Repubblica, e parecchi fra noi presero a coltivarla, non perchè ve ne fosse bisogno, ma per fare qualche cosa; e poi corre sciaguratamente nelle contrade nostre antico il vezzo di ricavare dalla Francia pensieri e voglie, e begli e fatti i vestiti. Le moltitudini rimasero un cotal poco spruzzate di comunismo e di socialismo, di cui però non conobbero le dottrine, e giova che le ignorino. Imprudenti, a mio parere, suonarono le parole del Lamartine nel suo Manifesto alla Europa, affermando essere la Repubblica il punto estremo dove giunge la civiltà di un Popolo per mezzo di reggimenti costituzionali, imperciocchè somministrassero a molti motivo di non posare, finchè non avessero toccato il vertice, e nei Principi mettessero sospetto di confidarsi intieri sopra una via sdrucciolevole; nè lo avere raccomandato, com'egli fece, ai Popoli i quali non fossero peranche giunti alla maturità dei Francesi, rimanessero indietro ad ammaestrarsi, assicurava punto, avvegnadio facesse comprendere ai Principi, che potevano sperare tregua, pace non mai. E come imprudenti, se male non mi appongo, furono coteste parole non vere, però che nella Inghilterra le libertà costituzionali durino dal 19 giugno 1214 in poi, nè mostrino per ora di volere cessare, e la Repubblica v'ebbe vita brevissima dal 1649 al 1660; per la quale cosa evidentemente apparisce, come nella formula costituzionale i destini dei popoli possano quietarsi, almeno per tempo lunghissimo.[7] Nè danno minore, io penso, ci ridondò dal proclamare che fece il Lamartine, non avrebbe sofferto in pace la Francia, che alcuna Potenza si fosse mossa contro i Popoli rivendicantisi in libertà; imperciocchè questa sicurezza rese baldanzose a insorgere nazioni, le quali forse diversamente ci avrebbero pensato due volte. So bene, che non si ha sperare che un Popolo metta in avventura la propria libertà per sovvenire all'altrui; ma mi sembra, ed è disonesto, spingere i creduli nel pericolo con promesse, che non si vogliono mantenere. Quante volte accadde rivoluzione in Francia, tante i Francesi eccitarono a sollevarsi Popoli confinanti per metterli come sentinelle perdute fra loro e le Potenze settentrionali di Europa; passata poi la burrasca, con ingenerosa politica dichiararono non potere sopportare, che i Popoli insorti si facciano gagliardi, onde i negozii politici non si complichino, i commerci loro non iscemino, l'autorità non diminuisca, ed abbiano a dividere con molti quella potenza, che gli Stati, quantunque liberissimi, attendono possedere in pochi. Questo vedemmo praticare dalla Monarchia Costituzionale di Francia del 1830, questo aspettavamo vedere dalla Repubblica, e lo vedemmo. Lamartine stesso, autore del Manifesto alla Europa, nella sua Storia della Rivoluzione del 1848 ci ammonisce essere cosa contraria agl'interessi di Francia acconsentire che qui in Italia si componga uno Stato potente. Politica di Enrico IV e del successore Richelieu, fu mantenere Italia e Germania deboli, epperò divise. Da Richelieu in poi, sembra agli uomini di Stato francesi, che nè sia mutato nulla, nè nulla sia da mutarsi, e poi si vantano non pure amanti, ma promotori del progresso. Da questo tengansi avvertiti i corrivi ad abbandonarsi alle lusinghe francesi. Di Lamartine ho parlato; mi sono taciuto degli altri, perchè temeva che lo inchiostro nero mi diventasse sopra la carta rosso per la vergogna. Intanto in Germania di Francia non curano, e in Italia così bene si adopera, che essa vi perde ogni giorno autorità, vi acquista odio. Molti mali ci vennero dalla Monarchia francese, ma spettava alla Repubblica, dopo avere sospinte le voglie dei Popoli oltre ai confini del giusto, affaticarsi ardentemente a spengere anche i sospiri della libertà. Qui vi è progresso d'iniquità, e nessuno può impugnarlo. Ma questo non è tema da svolgersi qui; a me basti avere indicato, che la rivoluzione francese fu causa di commovimento in Toscana.
Le rivoluzioni lombarda e veneta nei petti già infiammati raddoppiarono l'ardore della guerra. Fra tutte le nobili imprese nobilissima, fra le sante santissima, la guerra della Indipendenza. I Germani, discendenti generosi dello antico Ermano, certo non condannano in altrui i sensi che gli han resi nelle pagine della storia immortali. Seme di guerra perpetua è dominio di Popolo sopra un altro Popolo: allora la necessità rende il dominatore ingiusto, il soggetto violento; la pace, togliendo, si perde: la storia è lì con le sue tavole di bronzo per insegnare come le conquiste costino troppo più del guadagno che procacciano, e all'ultimo si perdono: una sola maniera ci presenta la storia capace di occupare permanentemente il paese vinto, ed è la conquista normanna. I vincitori si fermano nella Inghilterra, e a mano a mano distruggendo gli Anglo-sassoni, si sostituiscono al Popolo disperso. In altro modo non pare che si possa; però che neppure i Romani durassero a tenere la rapina del mondo, nè i Longobardi la Italia, nè i Saraceni la Spagna, nè i Greci l'Asia, e degli altri popoli conquistatori chi vivrà loderà il fine. Nonostante, se come Italiani a noi riusciva impossibile rifuggire dalla guerra, come Toscani ci appariva piena di eventi dubbiosi. Vincendo Austria, era da aspettarci la sorte che ci è capitata addosso: vincendo Piemonte, poteva forse credersi che saremmo stati assorbiti.
A compimento di rovina sopraggiunsero i disastri della guerra italiana. Nella sventura l'uomo diventa maligno. I Lombardi, e con essi parecchi Italiani, dubitarono della fede di Carlo Alberto; di tradimento sospettarono; inaspriti pensarono non aversi a riporre speranza nel Principato. Napoli, mormoravano, ritirare i soldati dal campo, Toscana procedere con fiacchi provvedimenti, Torino farsi rompere in battaglia a disegno. Mostruosa opinione era questa ultima, eppure propagata, e creduta nei ciechi impeti di passione smaniosa. Allora ottenne seguito nell'universale il disegno d'invertire il concetto politico: invece di giungere per mezzo della guerra allo assetto federativo della Italia, vollero con la istituzione dell'unica Repubblica arrivare al conseguimento della Indipendenza.
Qui pertanto in Toscana convennero