Jonathan Swift

Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni


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stesse ove abbonda il legname da costruzione, e tali navi, poste su le macchine dianzi accennate, fanno viaggi di trecento, di quattrocento braccia per giugnere al mare. Cinquecento carpentieri ed ingegneri pertanto furono messi in opera per allestire uno de' maggiori carri che avessero. Il corpo di questo carro, alto quattro dita da terra, avea sette piedi di lunghezza e quattro di larghezza, e si movea sopra ventidue ruote. Quel grido Peplom selan che udii prima d'addormentarmi la seconda volta, contrassegnava l'arrivo di questo carro, posto all'ordine, a quanto sembra, in quattro ore di tempo dopo il mio arrivo. La macchina fu portata parallela al mio corpo giacente. Ma la difficoltà principale consistea nel sollevarmi da terra e mettermi steso su questo carro. Vennero alzati a tal uopo ottanta pilastri, alti un piede ciascuno, e gagliardissime funi, della grossezza dello spago degli uffizi di spedizione, furono attaccate con uncini a larghe fasce, di cui gli operai subalterni aveano cinto il mio collo, le mie mani, la mia vita e le mie gambe. Novecento tra i più vigorosi facchini, addetti al dicastero del genio, furono scelti per tirarmi su mediante un apparato di girelle poste all'estremità d'ogni colonna, di modo che in men di tre ore fui levato da terra, portato e disteso e legato stretto sul carro. Tutte queste cose mi vennero raccontate, perchè mentre si faceano, io era immerso nel più profondo sonno per una conseguenza de' narcotici infusi entro il mio vino. Mille e cinquecento de' più grossi cavalli dell'imperatore, ciascuno alto quattro dita e mezzo, vennero adoperati per condurmi alla volta della metropoli che, come ho detto, era lontana di lì un mezzo miglio.

      Quattro ore circa dopo esserci messi in viaggio, mi svegliai per un caso il più ridicolo. Essendo avvenuto che il carro si fermasse un istante per raggiustare alcun che di andato fuor d'ordine in quella compostissima costruzione, due giovani nativi, mossi dalla curiosità di vedere che figura io facessi addormentato, s'arrampicarono tanto che arrivarono ad entrare nel carro; poi, avvicinatisi pian piano alla mia faccia, l'un d'essi, un uficiale della guardia imperiale, introdusse nella mia narice sinistra un buon tratto della sua picca, che facendomi il solletico in quella parte come se fosse stata una paglia, mi promosse un violento starnuto; il che gl'indusse a battersela alla presta per paura di essere veduti. Sol tre settimane dopo, seppi il motivo di questo subitaneo mio svegliamento. Marciammo lentamente tutto il restante di quella giornata, e fermatici la notte, rimasero sino a giorno schierate ai lati del mio carro cinquecento guardie, la metà munite di torce a vento, l'altra metà di archi e di frecce per esser pronte a scaricarle su me se avessi tentato disciogliermi. Nella successiva mattina, al levar del sole ci rimettemmo in cammino, ed era all'incirca il mezzogiorno quando ci trovammo ad una distanza di duecento braccia dalla città. L'imperatore e tutta la sua corte ne vennero incontro, ma i suoi grandi uficiali non vollero comportare in verun modo ch'egli s'avventurasse a salir sul mio corpo.

      Laddove si fermò il carro sorgeva un antico tempio, giudicato il più vasto che vi fosse nell'intera monarchia. Contaminato, alcuni anni addietro, da un esecrabile omicidio, il religioso zelo di que' popoli lo ebbe per profano da quell'istante, onde non servì più che ai bisogni del comune, e tutti i sacri arredi e suppellettili del medesimo vennero trasportati altrove. Entro questo edifizio fu deciso che sarei alloggiato. La porta maggiore che guardava a settentrione, era alta a un dipresso quattro piedi e larga quasi due, onde, benchè un po' a stento, io poteva far passare per essa il mio corpo. A ciascun lato della porta era una finestra non più alta di sei dita da terra. In quella di sinistra il fabbro ferraio di sua maestà fermò novant'una catene, simili a quelle che vediamo ai dì nostri (nel 1726) pendere dagli orologi delle signore in Europa, e quasi altrettanto larghe, le quali catene venivano a cignere la mia gamba sinistra, e ve le fermavano trentasei chiavistelli. Rimpetto a questo tempio, all'altro lato della grande strada maestra, e ad una distanza di venti piedi sorgeva una torre di cinque piedi almeno d'altezza. In questa salì l'imperatore coi primari personaggi della sua corte, per avere il comodo di ben osservarmi; così mi fu detto, perchè io non potei allora avere la fortuna di vedere questi alti personaggi. Fu fatto un computo da cui risultò che cento mila abitanti all'incirca della metropoli ne erano usciti, tutti spinti dalla medesima curiosità; e, a malgrado degli sforzi delle mie guardie, credo non saranno stati meno di diecimila quelli che per più riprese salirono sul mio corpo col mezzo di scale. Fu presta per altro ad uscire una grida che proibiva il far ciò sotto pena di morte. Poichè gli esperti ebbero giudicato cosa impossibile che mi sciogliessi dalle nuove catene, vennero tagliate tutte le cordicelle che mi legavano prima; onde mi trovai in piedi, dominato da un mal umore, di cui non ho mai provato l'eguale in mia vita. Ma non vi so descrivere lo strepito e lo stupore di quella popolazione al vedermi saltare in piedi e camminare; e dico camminare, perchè le catene che legavano la mia gamba sinistra erano lunghe circa due braccia, e mi davano la libertà di girare innanzi addietro, stando sempre nondimeno in quella periferia; mi procuravano un altro vantaggio, che essendo cioè infitte alle pareti quattro dita al di dentro della porta, mi permettevano il ficcarmici entro e giacervi con tutta la lunghezza del mio corpo.

       Indice

      L'imperatore di Lilliput accompagnato da parecchi de' suoi nobili, si reca a vedere l'autore nel luogo del suo confine. — Descrizione della persona e delle vesti del monarca. — Dotti incaricati d'insegnare all'autore la lingua del paese. — Favore che questi si acquista per la sua mansuetudine e bontà di cuore. — Visita fatta alle sue tasche; toltagli la spada e le pistole.

      Quando mi trovai in piedi, mi guardai attorno, e confesso di non aver mai veduta una più dilettevole prospettiva. Contemplato da tutte le bande il paese, mi apparve un continuato giardino, ed i campi chiusi, ciascuno in generale dell'estensione di quaranta piedi quadrati, mi sembravano altrettante aiuole di fiori. Questi campi andavano interpolati da boschi larghi mezza pertica quadrata, e i più alti alberi, a quanto potei giudicare in distanza, dovevano arrivare fino ai sette piedi. La metropoli che stava alla mia mano manca mi presentava l'aspetto d'una scena dei nostri teatri, su cui sia dipinta una città.

      Per alcune ore io era stato pressato da alcune necessità indispensabili della natura, ned è meraviglia, perchè passavano due giorni da che non m'ero alleggerito di certe incomode superfluità. Io mi vedeva orridamente alle strette tra l'urgenza del caso e tra la vergogna. Non vidi miglior espediente del cacciarmi entro della mia casa, e chiuderne la porta dietro di me. Così feci, poi andatomene tanto lontano, quanto la mia catena me lo permetteva... il resto non ha bisogno di spiegazione. Fu questa l'unica volta che mi resi colpevole di un atto sì sconcio; intorno a che supplico il candido leggitore ad accordarmi qualche perdono, e spero ottenerlo, quand'egli avrà ponderato l'arduità delle circostanze che mi premevano. Da quella volta in poi fu costante mio studio il liberarmi di questo pensiero ogni mattina appena alzato, fuor della porta, e lontano quanto mel permettevano i miei ceppi; in guisa che prima che mi arrivasse compagnia, ogni immondo vestigio veniva fatto sparire da due servi muniti di carriuole, assegnatimi per la mondezza esterna ed interna della mia casa-tempio. Non avrei forse dovuto fermarmi sì a lungo sopra una particolarità, a prima vista, non d'alto momento; ma mi parea necessario giustificare agli occhi del mondo la maniera mia di sentire in ordine a pulitezza; argomento su cui non sono mancati i maligni che, e nel caso presente ed in altre circostanze de' viaggi da me narrati, si sono divertiti spargere qualche dubbio.

      Terminata questa faccenda, venni fuori della mia nicchia, chè certo avevo bisogno di respirar l'aria aperta. In quell'intervallo l'imperatore era sceso dalla sua torre, e mi veniva in verso a cavallo; corsa che per poco non gli tornò ben fatale, perchè il suo cavallo ch'era, se vogliamo, ben addestrato, ma niente avvezzo a tal vista, qual si fu quella di un'apparente montagna che si movesse dinanzi a lui, si rizzò su le zampe di dietro; onde ci volle tutta la maestria del principe, per sua buona sorte, eccellente cavallerizzo, perchè si tenesse in arcione tanto che arrivassero i palafrenieri che galoppando si era lasciati addietro: questi, impadronitisi delle redini, gli diedero agio a smontare. Poichè fu