Jonathan Swift

Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni


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andai sempre proveduto d'una suppellettile abbondante di libri); su le spiagge, nello studiare le usanze e l'indole dei diversi popoli, e nell'impararne le lingue in che riuscivo con grande facilità, siccome dotato di una tenace memoria.

      L'ultimo di questi viaggi per altro non fu gran che fortunato, onde credei d'averne abbastanza di mare, e feci proposito di rimanermene a casa con mia moglie e la mia famiglia. Venuto via da Jewry Vecchia andai a stare di casa in contrada Fetter, poi al Wapping, sperando trovar faccende fra que' marinai; ma nemmeno lì ci vidi il mio conto. Dopo essere rimasto tre anni nella speranza che le cose prendessero miglior piega, dovei buttarmi all'acqua di nuovo, ed accettai un'offerta fattami del capitano Guglielmo Prichard, comandante dell'Antilopa, che era in procinto di fare un viaggio all'Oceano australe. Salpammo da Bristol ai 4 di maggio del 1699, ed avemmo su le prime un viaggio assai prospero.

      Non ci sarebbe forse il prezzo dell'opera se io incomodassi il mio leggitore, raccontandogli i particolari delle nostre avventure su quei mari: basti l'informarlo che nel nostro tragetto di li all'Indie orientali una violenta burrasca ci trasportò a maestro (nord-owest) della terra Van-Diemen, ad una latitudine, come apparve dalle nostre osservazioni, di 30 gradi, minuti 2 ad ostro. Dodici di noi erano morti per effetto delle immoderate fatiche e del cattivo nutrimento; si trovavano tutt'altro che in buona condizione i sopravvissuti. Ai 5 novembre, che è il principio della state in que' climi, era sì nebbiosa la giornata che i piloti s'avvidero di uno scoglio sol quando il vascello ne fu lontano di un mezzo tratto di gomona, ed il vento era sì gagliardo che ne spinse irremissibilmente a rompere contro di esso. Sei della brigata, ed io ne fui uno, lanciata la scialuppa nel mare, fecero con essa una giravolta onde liberarsi e dallo scoglio e dal bastimento andatovi addosso. Remigammo per circa tre leghe, secondo i miei computi, finchè già mezzo morti dalle fatiche e dai disagi sofferti nel bastimento, non fummo più buoni di durarla in questo lavoro. Ci abbandonammo pertanto alla discrezione dell'onde, nè passò mezz'ora che la scialuppa fu volta di sotto in su da un subitaneo buffo di vento settentrionale.

      Che cosa divenisse de' miei compagni della scialuppa, o di quelli che poterono aggrapparsi allo scoglio, non ve lo so dire; ma dovetti crederli tutti periti. Quanto a me, mi diedi a nuotare verso dove mi dirigeva la fortuna, e lasciandomi spignere dal vento e dalla marea, spesse volte mi sono lasciato andare le gambe all'ingiù, ma senza trovare mai fondo. Sol quando fui quasi spedito, nè ero più abile ad aiutarmi da me in alcun modo, sentii che il mio piede toccava la terra; e da quel momento la burrasca aveva cominciato a calmarsi tanto ch'io era padrone di tenercelo senza lasciarmi trasportare dai marosi. Il declivo della spiaggia era sì tenue che dovei camminare circa un miglio prima di raggiugnerla, e quando ci fui, saranno state, secondo le mie congetture, le otto all'incirca della sera.

      Andai innanzi quasi un mezzo miglio senza scoprire alcun vestigio di abitanti o di case; o certo, se v'erano, non me ne accôrsi, tanto la prostrazione assoluta del mio corpo m'avea ridotto a tristo partito. Alla stanchezza ed al caldo della stagione aggiugnete che io aveva in corpo quasi un boccale e mezzo d'acquavite, bevuta nel bastimento all'atto del licenziarmene, e crederete che tutte queste combinate circostanze mi resero molto proclive al sonno. Mi coricai dunque su l'erba che era cortissima, pur fitta e soffice assai, ove diedi la più profonda dormita ch'io mi ricordi avere mai fatta in mia vita, e che ha ad essere durata circa nove ore, perchè quando mi svegliai, cominciava appunto a vedersi il giorno.

      Feci per alzarmi, ma non fui capace di movermi, perchè, essendomi occorso d'addormentarmi supino, mi trovai tutt'a due le braccia e le gambe attaccate con forti legami al terreno; ed alla mia capellatura assai lunga e folta era stato praticato lo stesso servigio. Sentii nel tempo stesso che alcune sottili funicelle mi legavano tutto il corpo dalle ascelle fino alle cosce. Io non potea guardar altro che all'insù, ed il sole cominciava a scottare e la sua luce ad incomodarmi gli occhi. Io udivo un confuso bisbiglio d'intorno a me; ma nella postura in cui giacevo non mi era dato vedere altra cosa che il firmamento.

      Di lì a poco sentii alcun che di vivo moversi su la mia gamba sinistra, e che avanzandosi gentilmente sul mio petto mi montò quasi sul mento. Chinando gli occhi all'ingiù quanto potei con la mia testa, fatta immobile dalle legature, vidi che quel vivente era una creaturina umana, non alta sei dita, con proporzionato arco e con proporzionate frecce nelle mani ed il suo turcassino dietro le spalle. In questo mezzo sentii circa un'altra quarantina d'esseri della medesima specie (tali almeno li congetturai) che venivano dietro al primo.

      Vi lascio immaginare se rimasi attonito. Misi un sì forte grido che tutti si diedero spaventati alla fuga; anzi alcuni di loro (questo poi l'ho saputo dopo) si fecero male nel saltar giù dai miei fianchi per far più presto. Ciò non ostante tornarono quasi subito, e un di loro arrischiatosi al punto di fisare e squadrare i miei lineamenti, sollevò gli occhi e le mani in atto di ammirazione, e sclamò con voce strillante ma distinta: Hekina degul! esclamazione che gli altri ripeterono a coro parecchie volte, senza che certamente io capissi allora che cosa si volessero dire.

      Rimasi tutto questo tempo, ed il leggitore me lo crederà facilmente, in uno stato di grande agitazione; finalmente a furia di sforzi per mettermi in libertà, ebbi la fortuna di rompere le cordicelle che mi strignevano attorno la vita e di staccare dal suolo le caviglie che tenevano legato il mio braccio sinistro. Allora, portandomi alla faccia questo braccio, potei capire la meccanica di cui si erano valsi per legarmi a quel modo, e nel medesimo tempo con una violenta strappata, che mi produsse tutt'altro che gusto, arrivai ad allentare i legamenti che attaccavano i miei capelli al terreno, ciò che mi diede abilità quanta bastava per dare alla mia testa una voltata di circa due dita. Ma quelle creature tornarono a fuggire dal mio corpo prima che potessi acchiapparne una sola.

      In questa, udii un nuovo grido stridulo oltre ogni dire, dietro cui uno di que' campioni profferì ad alta voce queste parole: Tolgo phonac, ed in un subito sentii volar su di me la scarica d'un centinaio di frecce che cadute su la mia mano sinistra la forarono come altrettanti aghi da cucire. Poi, senza darmi tregua, scoccarono all'aria una folata di dardi, come facciamo noi colle bombe in Europa, alcuni de' quali caddero, suppongo, sul mio corpo, ancorchè io non li sentissi grazie ai miei panni: ed altri su la mia faccia che mi copersi con la mano destra. Cessata questa pioggia d'armi da lancio, misi un gemito di dolore, poi voleva far gli ultimi sforzi per isciogliermi, ma que' signorini non me ne diedero il tempo, chè mi mandarono addosso una rugiada di quelle galanterie, copiosa più della prima, anzi alcuni si arrischiarono a tribolarmi i fianchi con le loro aste; ma per buona sorte li riparava la mia casacca di cuoio di bufalo, onde non riuscirono a trafiggerli. Credei quindi che il più saggio partito per me fosse lo starmene quieto per allora; e divisai starci fino alla notte, durante la quale, avendo la mano destra già in libertà, non mi sarebbe stato difficile far libero il resto della mia persona; chè poi, in piedi una volta, io mi giudicava un competitore bastantemente gagliardo per un intero de' loro eserciti, se pure ciascun soldato era dello stesso calibro di quello che venne a trovarmi la prima volta. Ma il destino dispose altrimenti di me.

      Poichè quella popolazione si fu accorta che io mi era messo quieto, non mi vennero scaricate addosso altre frecce; ma dallo strepito che io udiva, capii che cresceva sempre di numero, e ad una distanza di circa quattro braccia, rimpetto al mio orecchio destro, udii per una buon'ora continua un picchiamento come di gente intenta ad una fabbrica. Arrivato, sin quanto me lo permettevano le caviglie conficcate in terra e le mie legature, a voltare il capo da quella banda, vidi un palco alto all'incirca un piede e mezzo da terra, capace di contenere quattro di quegli abitanti, con due o tre scale a mano per salirvi; dalla quale tribuna un di loro, che all'aspetto pareva un personaggio di distinzione, mi tenne un lungo discorso di cui non intesi una sillaba.

      Avrei dovuto premettere che quel personaggio principale, prima di cominciare la sua concione, gridò forte per tre volte: Langro dehul san (e queste parole e le precedenti mi furono in appresso ripetute e spiegate). Non appena furono profferite, ebbi presso di me una cinquantina di quei nativi,