Anton Giulio Barrili

La notte del Commendatore


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e in mare seminato di scogli. La reticenza, così lodata una volta dal suo maestro fra tutte le figure retoriche, gli sarebbe rinfacciata come una colpa. Ad altro, ad altro gli conviene far capo; altri spedienti, altri artifizi gli occorrono. Figuratevi che egli ha da diventare anche fisonomista, e cogliere tra le grinze del volto, perfino nel modo di tenere gli occhiali, il segreto dei mutevoli umori del suo Radamanto.

      Un mio amico andava più oltre. Corrompeva la serva del professore, ingenua creatura che credeva agli orecchini di princisbecco, per sapere se quella notte il bravo uomo aveva dormito tutte le sue ore, se i bimbi erano sani, se la signora non gli aveva fatto scene; e si regolava in conformità dell'avviso.

      Dunque, tornando alla contentezza del signor Nicolino, la prima ragione era quella degli esami superati. E l'altra? L'altra era questa: che il signor Nicolino era a Torino, senza sopraccapi, e che non doveva tornar più per un pezzo a Dogliani. Non già che amasse poco la famiglia; ma quella vita campagnuola, Dio santo, e dopo quattro mesi di uggiose vacanze!…

      Giudicatene voi. La mattina, tutti in casa si alzavano per tempo; la gente di servizio al canto del gallo, perchè il pane lo s'impastava in casa, perchè c'erano i pavimenti da scopare, le masserizie da ripulire, le stoviglie da rigovernare, e via discorrendo; il signor Amedeo, padre, una mezz'ora dopo, per uscire sui campi, a dar l'occhiata del padrone ai mezzadri; la signora Caterina, madre, subito dopo il marito, per sopraintendere alle faccende di casa, ma anzitutto per farlo star su, lui, il dormiglione, che tra una chiamata e l'altra di quella santa donna trovava ancora il modo di schiacciare il sonnellin dell'oro.

      Si vestiva a malincuore; usciva a stiracchiarsi ed a sbadigliare nell'orto, per farsi cantare da una fante chiassosa il solito ritornello:—Chi sbadiglia non può mentire; o gli ha fame, o vuol dormire; o gli ha qualche mal passato; o gli è forte innamorato.—

      —Tutte e quattro queste cose;—rispondeva egli, mezzo burbero e mezzo faceto;—ho sonno, ho fame, ho pensato che oggi sarà come ieri, e sono innamorato, ma non di te. Va, e mettimi un par d'uova nel tegamino.

      —Eh, lo so che non è innamorato di me! Non ho già le mani nello zucchero, io!

      —Che cosa intendi di dire, sciocca?

      —Dico, signor padroncino, che dello zucchero si fanno i confetti, e che il droghiere….

      —Piglia questo, di confetti!—gridò egli, facendosi rosso in volto come una ciliegia, e andandole contro per assestarle un mezzo scapaccione.

      Ma quella linguacciuta non istette ad aspettarlo, e corse per l'ova del padroncino, contenta di aver mostrato colla sua stoccatina che la sapeva lunga sul conto suo.

      Finita la colazione e data una scorsa in paese, tanto per digerire, o per giungere fin sui paraggi della drogheria, dove con aria di parere e non parere incominciava a molestarsi colle dita il solino, per aver modo di voltarsi e sbirciare in bottega, gli bisognava chiudersi nella sua camera, a smagrire sui libri.

      La mamma, se a caso lo vedeva girandolar colle mani alla cintola, era sempre lì coll'antifona:

      —Suvvia, Nicolino; non hai fatto ancor nulla quest'oggi. Vedi, tuo padre va in collera, e brontola sempre con me. Per amor mio, va a lavorare, che tu non perda il novembre quel che sapevi in agosto.

      Nicolino andava storcendo un pochino le labbra, ma andava. Ridottosi nella sua camera, e piantati i gomiti sullo scrittoio, masticava, secondo il bisogno, un passo di Tito Livio, o un teorema di geometria; ma queste cose gli conciliavano maledettamente il sonno, e per cacciarlo via, Nicolino mutava registro, scombiccherava un acrostico, o tirava qui un tocco in penna, tutto facce e profili di parrochi.

      Onde tanto accanimento contro questa degnissima sottospecie dell'ordine dei primati? Il nostro Nicolino non poteva patire il parroco di San Quirico che veniva ogni sera in casa a far la partita di tarocchi, e che ogni sera regolarmente, col pretesto di volergli un gran bene, gli faceva un interrogatorio di bassa latinità. Si noti, a scusa di Nicolino, che egli era già a Cicerone, e il buon prete s'era incocciato nell'Epitome. Sbadataggine? Impotenza? Arcano che Don Silvestre ha recato con sè sotto le umide volte del presbiterio.

      Lo studio quotidiano finiva come doveva finire, con una brava dormita a gomitello. Dopo due ore di quella applicazione, il ragazzo sgattaiolava nella vigna, per far ora di pranzo. Usava per altro la precauzione di portarsi un libro sotto il braccio, per non lasciar credere che andasse a caccia di grilli, o, come più veramente era, in busca di fragole selvatiche. Qualche volta, allo sbocco d'una stradicciuola campestre, s'imbatteva nel babbo; ed ora il libro lo salvava, ora no, da una ramanzina coi fiocchi.

      Gli voleva un gran bene, suo padre; ma era un bene di sostanza, non d'apparenza, e la prima pelle appariva un po' ruvida. A tavola, i principii erano sempre questi: Hai studiato quest'oggi?—Sì, babbo.—Che cosa?—Gli elementi di geometria.—Bene domattina mi copierai cinque teoremi, e me ne darai anche la spiegazione. Vo' vedere i progressi che fai.—

      Non faccia meraviglia la cosa, perchè il signor Amedeo sapeva tutto, anche di matematiche. Uomo di pronto ingegno e di vasta coltura, argomento nella sua prima gioventù di alte speranze ai Doglianesi della vecchia generazione, il signor Amedeo si era poi affondato nei pantani della vita di provincia. Perchè? Anzitutto per ragioni domestiche; inoltre, e più ancora, per affezioni, che lo avevano condotto a formare una nuova famiglia all'ombra della vecchia. E prima per amore, e da ultimo per consuetudine, aveva ristretto il suo orizzonte per modo, che gli bastava di attendere ai suoi poderi, perchè dessero un anno per l'altro le loro diecimila lire di reddito, egli che avrebbe potuto guadagnare cinque volte tanto in una gran città, a far l'avvocato od il medico. A volte ci pensava, anzi se ne rodeva un pochino; e che fosse proprio così, lo provava il fatto del leggere continuo che faceva. Di solito, la vita di provincia abbatte, rappicciolisce lo spirito; non si studia, non si legge più, salvo il giornale, tanto per fare un po' di polemica stracca alla bottega da caffè. Ma il signor Amedeo più che una vita di provinciale, faceva una vita di campagnuolo, e studiava alle sue ore e si teneva al fatto delle cose del mondo. Perciò i rimorsi del non aver seguito la sua stella; e poichè gli era nato e venuto su l'erede, si riprometteva di emendare in lui la sua colpa, di sviarlo dalle secche su cui egli aveva incagliato.

      —Quel che non ho potuto far io,—diceva il signor Amedeo,—farà lui; ingegno ne ha; non lascierò che si smarrisca per via.—

      Le scuole erano buone a Dogliani. E non era un miracolo, perchè questa è soventi volte l'unica fortuna dei piccoli centri in Italia, e da loro per questo rispetto, un gran vantaggio sui grandi. Ma il signor Amedeo non se ne contentava; il primo, il vero maestro di suo figlio, era lui. Tornato indietro coll'ingegno fino ai primi elementi dello studio, d'anno in anno si alzava con lui, cavando tesori di sapere dai fondi della memoria, che ne erano forniti, come d'anfore e vasi i fondi della casa di Arrio Diomede a Pompei.

      Nicolino sentiva di essere amato grandemente dal babbo. Ma qualche volta il suo spirito irrequieto si ribellava a quell'amore violento, che gli sapeva di tirannico.

      —Mio padre—pensava egli—mi crede una cima; e non è vero, ecco, io non sono che un ciuco. Ho fatto male a strappare l'anno scorso il primo premio. Ora, li ho a pigliare tutti. Che noia!—

      Tra i molti spedienti immaginati da suo padre per fargli mettere amore allo studio, c'era questo, che merita d'essere raccontato. Un giorno il ragazzo era entrato nella camera paterna. Il signor Amedeo, che stava riponendo alcuni volumi sugli scaffali di una piccola libreria, gli aveva parlato così:

      —Vedi, figliuol mio: quando avrai venticinque anni potrai leggere anche tu questi libri. Adesso no; sei troppo giovine, e son libri che fanno girare il capo ai ragazzi.—

      Tanto bastò perchè a lui gli girasse subito. Ad ogni ora ronzava nei pressi della camera: ora con un pretesto, or con un altro, c'entrava, sbirciando il frutto proibito attraverso la custodia del reticolato di filo di ottone. Ed oh meraviglia! Due giorni dopo quella tentazione, suo padre aveva dimenticato la chiave nella serratura degli sportelli.

      Indovinate già quel che avvenne. Il signor Nicolino die un giro di chiave ed aprì. Ma poi, rimase lì perplesso tra il sì e il no, come quel personaggio dell'Ariosto.