c'è troppo da fare, io sto per un fascicolo al mese.
—Sentite, amici miei; diamola nel mezzo e usciamo fuori per quindicine. Noi si ha tempo a scrivere e gli altri hanno tempo a leggere.—
Qui, gettate le fondamenta, cominciarono le osservazioni minute, intorno ai necessari congegni di ordinamento interno; alle spese, ai carichi di amministrazione e a tutti gli altri amminicoli, sui quali il signor Conte era invitato a dire il suo nobile e riverito parere.
Quanto alle materie, non c'era fortunatamente da stillarsi il cervello. Gli scrittori abbondavano, e tra cattivo e mediocre ognuno ci aveva un sacco e sette sporte da mettere in comune. Ariberti incominciava co' suoi versi d'amore, inspirati dalla figlia del droghiere di Dogliani, ma che, con qualche ritoccatina, potevano tirarsi dal biondo al bruno, passare per roba di più prossima e più aristocratica derivazione. Ferrero dava fuori il suo viaggio in Toscana, col titolo pomposo: Tre mesi sull'Arno. Veramente, non c'era stato che un mese, e nemmeno nella incomoda postura del colosso di Rodi; ma già lo ha detto Orazio: Pictoribus atque poëtis, quidlibet audendi semper fuit aequa potestas. La qual cosa vuol dire che pittori e poeti ebbero sempre la licenza di uscire dal seminato, e che Orazio Flacco, buon'anima sua, era un confessore di manica larga. Il Vigna, poi, ci aveva il suo capitolo sugli amori di Tibullo, e poteva tirare innanzi sullo stesso metro, mettendo in prosa quei di Catullo e di Properzio. Balestra ci aveva la canzone in pronto; un altro lo studio sui Nibelunghi, quella roba da mangiare che sapete; finalmente il Contino si disponeva a ponzare le sue note parigine, che doveano riuscire la pièce de résistance di quella indigesta accozzaglia.
E il programma? oh non dubitate, pensarono anche al programma; anzi, fu stabilito di dettarlo in francese. Non era un omaggio alla patria; ma come fare, perdinci? Il signor conte Candioli, un figlio di ministro, che si degnava di praticare con loro, e senza del quale addio speranza di far uscire il giornale, aveva fissato l'animo nel suo francese e non c'era stato più caso di rimuoverlo.
—Ah, lo dicevo io!—gridò tutto ad un tratto il Ferrero, lasciando a mezzo una sua proposta che non lo finiva poi troppo.—Il Bertone è a Torino. Guardatelo, là, sotto i portici di rimpetto.
—Dove?
—Sotto l'arcata, davanti a quella mostra di libri vecchi. Vuol fare un bel guadagno il venditore, quest'oggi!—
Gli occhi dei giovani erano corsi laggiù, dove accennava il Ferrero. Proprio com'egli diceva, laggiù, davanti alle quattro assi che formavano la bottega del libraio da strapazzo, si era fermato da pochi minuti un giovane pallido, punto in carne e assai male in arnese, quantunque non lo si potesse dire uno sciatto. La camicia era bianca di bucato; ma pur troppo non lasciava vedere i solini al collo nè i polsini alle mani. Il giubbone di un vecchio panno color tabacco, aveva un bel mostrarsi spazzolato di fresco; oltre che in quella sua continua battaglia colla spazzola ci aveva perso i peli e guadagnato un lustro particolare, si vedeva dal taglio che doveva aver servito d'abito da nozze al nonno di chi lo indossava. Il resto del vestiario era in conformità del capo principale, e non occorre dirne altro.
Anche il contino Candioli volse un'occhiata a quel poveretto e arricciò il naso, come potete immaginare.
—Comment?—esclamò egli.—Vous vous occupez de pareille engeance?
—Non faccia caso;—rispose il Ferrero.—È stato un nostro compagno in filosofia, un amico dell'Ariberti.
—Ve l'ho già detto una volta; mio come vostro!—gridò l'Ariberti seccato.
—Eh via, non andare in collera! Si dice questo perchè tu lo conoscevi prima di noi. Del resto, non c'è nessun male. Si può avere avuto a che fare con molta gente, a questo mondo; tutto sta a non strofinarcisi troppo.
—Per non appiccicarsi l'untume;—soggiunse Balestra, in mezzo alle risa degli altri.
Frattanto il giovane che era argomento di tante chiacchiere, dopo aver scartabellato parecchi volumi e comperatone uno con pochi soldi che cavò dal taschino della sottoveste, si mosse di sotto l'arcata per traversare la via, tenendo sotto il porticato di destra proprio a filo del caffè dove stavano seduti i suoi critici.
—Che voglia entrar qua?—domandò tra spaventato e scherzoso il
Ferrero.—Io prendo il portante.—
Ma il giovane non aveva di queste fantasie signorili. Entrato sotto i portici, piegò con passo frettoloso a mancina. Per altro, nel passare che fece davanti alla finestra, presso cui erano seduti costoro, dovette certamente vederli attraverso i cristalli; e bene lo dimostrò la timida occhiata che volse da quella banda, come il suo tirar lungo senza un sorriso, o un cenno del capo, indicò in pari tempo che egli sentiva la miseria sua, non meno che la loro grandezza. Il poveretto ha la vista acuta. Del resto, ci voleva poco a capire, anche senza l'ingegno di Filippo Bertone, che quelli là appartenevano alla schiera dei felici, entrati per la scala d'oro nel mondo, e che non voleva dir nulla, se il caso li aveva avvicinati a lui per qualche anno su d'una panca di scuola.
Gli allegri giovani, quasi tutti suoi compagni di studio, gli avevano dato una superba guardata, senza scomodarsi altrimenti a salutarlo. Anche l'Ariberti, che era il più esposto, perchè più vicino ai cristalli, era rimasto cogli occhi in aria, facendo le viste di badare a tutt'altro.
—Sempre i medesimi stracci!—disse il Ferrero, che era di tutti il più accanito contro il povero Bertone.—Che ve ne pare, amici? Facciamo una colletta per comperargli un soprabito?
—Ah, ah! T'intenerisci per lui?—gridò il Balestra. Amici, in verità
—io vi dico, o Ferrero vuol morire, o fa conto di domandare al
—Bertone che gli scriva per la Dora un capitolo sulla filosofia di
—Aristotile.
—Sciocchezze!—esclamò il Ferrero, crollando sdegnosamente le spalle.
Per altro, non dovevano essere sciocchezze del tutto, perchè, alle parole del Balestra, il sarcastico Ferrero si era fatto bianco in viso come un panno lavato.
Il contino gli die' una mano in buon punto, facendosi a sviare il discorso.
—E adesso,—chiese egli,—questo Bertone studierà legge anche lui?
—Non crederei;—rispose il Ferrero.—L'anno scorso raggranellò a stento i danari della minervale. Ma se ne vedono tante!…
—È fâcheux,—sentenziò il contino,—che questi villani vogliano tutti avviarsi agli studi delle classi alte in cambio di stare alla vanga. L'agricoltura ne porta le pene. È questa l'opinione di Sua Eccellenza mio padre, ed è anche la mia.—
Intorno al borioso figlio del suo signor padre, c'erano parecchi, anzi tutti, che avrebbero potuto risentirsi di quella uscita scortese. Tutti erano figli, o nepoti, di uomini venuti su dal nulla, e perciò veri stipiti della loro casata. Ma nessuno protestò. Si ama così poco voltarsi indietro a guardare le proprie origini! E il difenderle, poi, non è egli un riconoscerne la umiltà? Nè basta ancora; oltre la natural propensione a buttare sotto il banco tutto quello che non fa comodo, c'è l'altra di dar sempre ragione agli sciocchi, quando e' si trovano in alto. È il primo passo; e poi verrà l'altro, di mettersi alla pari coi tristi. Spesso accade che urli coi lupi, chi ha cominciato ad abbaiare coi botoli. I sapienti dicono esser questa la scienza della vita; grama vita e grama scienza!
Nicolino Ariberti. era rimasto sovra pensieri. Quella timida occhiata di Filippo Bertone gli stava sul cuore.—Perchè non l'ho io salutato?—andava dicendo tra sè.—Imparerò anch'io a giudicar gli uomini solamente dall'abito?
—Torniamo a noi;—gridava intanto il Ferrero.—-Si pensa sul serio a metterla in luce, la Dora?
—Ma si, certamente.
—Orbene, provvediamo subito all'essenziale. Il signor conte ci fa egli la grazia di toccarne a Sua Eccellenza? Un padre come quello non vorrà certamente ricusare cosa alcuna a suo figlio.
—«A tanto intercessor nulla si niega»—soggiunse