Anton Giulio Barrili

La notte del Commendatore


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di cardellini, o di lodole, non turbato che dal rimanersi in disparte di certuni, o più contegnosi o più timidi, che sono battezzati lì per lì coi più ridicoli nomi.

      Sul principio dell'anno le lezioni son frequentate che nulla più. I professori hanno il sorriso sulle labbra e gli studenti del pari. C'è in tutti una voglia di far bene; si portano in tasca i quaderni, si è tutt'orecchi, e si pigliano note a furia, e magari si avesse un barlume di stenografia! Poi, un bel giorno, vedete caso! il quaderno s'è dimenticato sul tavolino da notte, dove lo avevamo riposto per consolare una veglia studiosa. Pazienza; c'è un amico che l'ha portato; per quest'oggi scriverà lui; copieremo. E invece di stare attenti, di pendere dal dotto labbro, si porge orecchio a un raccontino bisbigliato di fianco, ad una celia, ad un frizzo che fa sommessamente il giro delle panche. Addio lezione; addio filo del ragionamento; il trattato avrà una lacuna. Che importa? Non c'è l'amico che scrive? Ma il male è contagioso; un altro giorno il provvido amico l'ha dimenticato lui, il quaderno; e tant'è; poichè il dado è tratto, anche lui dà ascolto alle chiacchiere e lascia che il professore si spolmoni a sua posta. Via, la cosa non è poi senza rimedio. Non c'è egli il compagno sgobbone, che lavora per tutti? Non gli si è mai detto crepa; lo si è sempre guardato con un senso di compassione; ma in fondo non deve aver fiele, ha da essere un buon figliuolo, e all'occorrenza impresterà la sua prosa. Questo è l'essenziale.

      Pigliata in tal modo la piega, nuove consuetudini si vanno formando nell'anno. Si studiano molto, è vero, gli umori del corpo insegnante; si medita anche il problema del miglior modo di ottenere la firma del professore sul certificato bimestrale; ma fermi lì! Anche la gaia fratellanza di prima va a rotoli; succedono i piccoli crocchi, e, secondo i gusti, le combibbie, i cenacoli. E intanto, signori professori, sputate un'ala di polmone, se Dio vuole; lo studente è ancora qualche volta dinanzi a voi in carne ed ossa, ma lo spirito… lo spirito è via. Chi sa? forse in estasi, come

       Il rapito di Patmo evangelista,

      vede tutt'altro che donne sedute su bestie color scarlatto, con sette corna e dieci teste; le vede emergere, candide a guisa d'alabastro, dai palchetti del Regio, o passar veloci in calesse al Valentino, o commettere sotto i portici di Po un piedino snello; quel piedino tentatore, che non si dà e non si nega all'ammirazione dei pilastri del Fiorio..

      Lettori umanissimi, ci siamo un po' indugiati per via; ma che farci?

       Al passato bisognava pur dargli un'occhiata. Chi non ha un passato?

       Anche al nostro eroe, che fa vita nuova, ritornando ai suoi

       diciott'anni, occorreva fabbricargliene uno.

      Era contento, il signorino. E forse avrebbe dovuto non esserlo tanto, poichè rimaneva a Dogliani la figlia del droghiere, una stupenda biondina, colla quale avea ballato tre volte, e alla quale, una sera, attraverso il cancello dell'orto, aveva giurato un amore immortale. Ma sappiate, o lettori, che il signor Nicolino ci aveva un gran cuore, e che i gran cuori, come tutti i gran vasi, non sono grandi per nulla. Ben altro ci aveva a far capire il signorino, nel suo. Anche alla capitale lo aspettava un amore. Credo che fosse già il terzo; ma badate, non potrei giurar nulla. So che era un amore a mezz'aria, imbastito a teatro, ancora senza certezza di ricambio, e già immortale, come tutti gli altri.

       Indice

      Nel quale si vede nascere un giornale e spuntare la coda d'un segreto

      Nell'atrio dell'università, sotto i portici di Po, in piazza Castello, ad ogni tratto il giovane Ariberti s'imbatteva in qualche amico.

      —Ah, sei tu, buona lana? E dove hai passate le vacanze?

      —Io? Non me ne parlare. A Dogliani, nel «paterno ostello».—(e qui un sospiro lungo tanto rincalzava la frase).—Ma dimmi piuttosto; e tu dove sei stato?

      —Ho fatto un viaggio;—rispondeva l'altro, con un'aria dimessa che volea parere modesta;—sono stato in Toscana.—

      E lì il Ferrero, che così per l'appunto si chiamava l'amico, a tirar giù una filatessa di tutto quello che aveva veduto a Lucca, a Pisa, a Firenze. Senza andare di una parola più in là d'una guida, trovava il modo di ficcar dentro al discorso tutte le meraviglie dei luoghi veduti, e non la perdonava nemmanco a un muricciuolo; laonde, non è a dire se il povero confinato di Dogliani se ne sentisse venir l'acquolina in bocca. E poi l'amico Ferrero ci aveva le sue considerazioni, i suoi appunti particolari sugli usi, sui costumi e sulla lingua dei figli di Etruria; ricordava i modi, rifaceva la parlata con una grazia tutta sua. All'osteria aveva mangiato il lesso, che corrispondeva alla carne bollita, ahi troppo, della cucina domestica; aveva chiamato tavoleggiante il garzone di caffè; conosceva le uova al tegame, le uova a bere, le uova affogate, le sode e le bazzotte; insomma era diventato un'arca di scienza.

      Al caffè dell'Aquila, dov'erano andati i due a sedersi, con tre o quattro amici combinati per via, un altro studente, che era conte e figlio d'un ministro, e che per solito tirava dritto salutando con molto sussiego i compagni, si era degnato di avvicinarsi a loro e di rallegrarli colla sua conversazione, per far sapere a tutti che tornava allora allora di Francia.

      —E Lei, dove è stato?—domandava il signor conte, volgendo la parola al nostro Ariberti.

      —A Dogliani;—rispondeva questi, avvilito.

      —Dogliani! Dov'è?—chiedeva il conte, coll'aria di chi non si raccapezza.—Dalle parti di Mondovì?

      —Sì, verso le inospiti Langhe;—soggiungeva un altro della brigata.

      —E via, non disprezziamo tanto i nostri paesi;—interruppe il

       Ferrero.—Ci sono certe ragazze avvistatette, che non fo per dire…

       Il nostro Ariberti ha da aver fatto strage.

      Il conte, strascicando l'erre con quel suo garbo nobilesco:—Quando si va in campagna, non c'è altro modo di vivere, che devastando il pollaio. Ma Parigi…. Parigi….. ecco la vita! Il palazzo Reale! il Rocher de Cancale! la Chaussée d'Antin colle sue donne adorabili! Parlez-moi de ça!

      E con una leggiadra giravolta sui tacchi, il signor conte Candioli andò verso il banco, per farsi ammirare dalla padrona, pallida creatura, che aveva letto Ossian e si credeva una specie di Malvina, perchè aveva i capegli di canapa mal pettinata.

      —Vedi che sciocco!—disse il Ferrero sottovoce all'Ariberti.—Perchè è stato a Parigi, insieme coi bauli del suo signor padre…

      —Eh via, non sei tu forse stato a Firenze?

      —In Italia, perdinci, e co' miei danari.

      —Vorrai dire di tuo padre.

      —S'intende; ma sono andato per mio diporto. Ma perchè non far lo stesso anche tu, scambio di chiuderti in quel tuo guscio di noce? Tuo padre non è ricco abbastanza per farti pigliare un po' d'aria di casa d'altri?

      —Che vuoi? Gli sembro troppo giovane, per girare il mondo da solo. Poi, c'era l'esame di ammissione… Infine che ti dirò? Voi fortunati, che avete potuto passare il confine! Noi ce ne siamo rimasti all'ombra nelle nostre montagne, coi nostri cenci campagnuoli dattorno. Non è egli vero, Balestra?—

      L'amico chiamato con questo nome rispose con un malinconico cenno del capo, che voleva dire: purtroppo.

      —Benissimo; bisogna far strage!—ripigliò.

      —Oh, a proposito di cenci,—ripigliò il Ferrero,—che cosa è avvenuto del tuo Bertone?

      —Mio!—esclamò l'Ariberti.—Mio come tuo. Tu sai ch'egli è di Mondovì ed io per tutte le vacanze non mi sono mosso da casa. Del resto, che vuoi che abbia fatto? Sarà venuto anche lui.

      —Si diceva,—notò il Balestra,—che non avrebbe più continuato gli studi, perchè la famiglia non poteva mantenerlo a Torino.

      —Sfido io!—entrò a dire