dei miei inquilini non mi riguardano… Se crede che ci abbia guadagnato qualcosa…
— Non credo nulla! – troncò De Vincenzi. – Che Giobbe Tuama facesse l’usuraio è cosa che oramai non interessa più. E neppure m’interessa sapere quali furono i vostri rapporti con lui pel suo commercio… Ma il vecchio è stato ucciso, capite?
La donna aveva il volto livido e non era possibile, quindi, che impallidisse di più; ma fu ripresa dal tremito convulso.
— Madonna!… Ucciso!…
Si voltò al marito.
— L’hanno ucciso, hai sentito?
L’uomo volse lentamente lo sguardo verso il commissario.
— Doveva finire così! – borbottò.
La vecchia ebbe uno scatto.
— Non gli badate! Lui non sa quel che si dice. Il signor Tuama era un brav’uomo. Chi è stato l’infame?…
— E proprio quello che vogliamo sapere: chi è stato! Voi non avete nessuna idea? Non avete veduto qualcuno, che possa avervi destato sospetto?
— No. Non so niente. Non ho veduto nessuno!
— Era accaduto altre volte che Tuama rimanesse fuori di casa tutta la notte?
— No, mai.
— E ieri mattina, quando rincasò, che vi disse?
— Ah!
Gli occhi della vecchia brillarono.
— Aspettate. La sera prima erano venuti due signori a cercarlo… Non li avevo veduti mai… e non vollero dirmi nulla… Io aspettai Tuama per avvertirlo, ma alle undici non era rincasato e mi decisi a chiudere il portone… Ebbene, nel chiudere, vidi uno di quei due che stava fermo sul marciapiede di fronte… Lo riconobbi benissimo…
Si trattava dell’uomo dell’Agenzia «Radio». De Vincenzi lo sapeva. Le informazioni della portinaia non servivano a niente. Si alzò.
— Ho capito…
La donna lo afferrò per un braccio.
— Aspettate!… Ieri mattina, verso le sette, vidi di nuovo quell’uomo. Venne a chiedermi se Tuama fosse in casa. Gli dissi che certo doveva esservi. Salì sopra e tornò, dicendomi che la porta era chiusa e che nessuno rispondeva. Mi sembrò impossibile. Volli salire con lui, e vidi, infatti, che la casa era vuota. L’uomo se ne andò. Verso le 10, comparve il signor Tuama…
— Non vi disse perché aveva dormito fuori?
— Mi disse che era stato a Varese, che gli si era fatto tardi e che aveva preferito non tornare… Ma quell’uomo che lo cercava!…
— Avvertiste Tuama?
— Lo avvertii, naturalmente. Non sapeva chi potesse essere. Del resto salì appena un momento in camera e tornò subito fuori. Non lo vidi più da allora. Quando mi sono accorta stamane che neppure la notte scorsa era rincasato, ho pensato che fosse andato a Varese di nuovo.
De Vincenzi capì che, per il momento almeno, non c’era più nulla da tirarle fuori. Chi aveva ucciso il vecchio non doveva essersi mostrato in via Bramante. E l’ipotesi che potesse essere uno dei debitori, uno dei tanti disgraziati, che avevano lasciato lembi della loro carne nella cassetta di legno, non era più sostenibile da quando all’assassinio del vecchio si era aggiunta l’uccisione di Giorgio Crestansen, infittendo il mistero e rendendo il problema unico.
Il commissario si ritrovò finalmente per la via piena di sole, quasi deserta in quell’ora meridiana della domenica.
Si fermò ad attendere il tranvai, che lo avrebbe ricondotto al centro. Aveva molte cose da fare, urgenti. Parlare col Pastore evangelico, interrogare le due guardie notturne e soprattutto tornare in Piazza Mercanti, dove avrebbe ritrovato Beniamino O’Garrich. Aveva sentito subito che quell’ercole dal volto testardo e duro come pietra chiudeva in sé, forse, la spiegazione dell’enigma. Egli si era trovato nel Sud Africa con Tuama e con Crestansen. Legato alla stessa galera di quei due doveva essere! Il terrore evidente, per quanto avesse tentato di dissimularlo, che lo aveva invaso quando si era reso conto che il vecchio non doveva essere stato ucciso da un malfattore volgare e per rapina, lo dimostrava. Anche lui temeva adesso la vendetta di quel feroce assassino, che operava nell’ombra senza fallire il colpo. Se De Vincenzi fosse riuscito a far parlare l’irlandese, avrebbe fatto un gran passo. E per indurlo alle rivelazioni non c’era che un mezzo: spingere al parossismo il suo terrore. Scosse la testa: il fatto di non aver parlato subito dimostrava che in lui la paura della morte non era tanto forte da superare quella delle conseguenze di una rivelazione. Quale poteva essere il passato di quei tre strani individui, venuti a naufragare proprio a Milano, dopo chissà quali vicende fortunose? E il quarto di essi, quell’Olivier O’Brien, che Crestansen voleva ritrovare, come aveva ritrovato il vecchio Jeremiah Shanahan, sotto le spoglie di Giobbe Tuama? Era lui l’assassino?
Seduto in tranvai, con lo sguardo assente, il volto concentrato, De Vincenzi rifletteva intensamente, tutto teso nello sforzo di non dimenticare alcun particolare, di elencare senza omissione tutti gli elementi, che gli si erano mostrati fin allora.
Lui non prendeva mai appunti; ma aveva il dono d’incasellare indelebilmente nel cervello le osservazioni che faceva.
Giobbe Tuama era stato strangolato da un uomo forte, che lo aveva stretto alla gola con mani simili ad artigli, e così pronto e sicuro da non consentire alla vittima neppure un grido. L’assassino gli aveva tolto l’orologio dalla tasca, con tanta violenza da strappargli la catena e anche con tanta fretta da non accorgersi che la chiavetta era caduta in terra. Perché proprio l’orologio e non il denaro o altro? E poi, invece, per quanto si trovasse necessariamente nella condizione di doversi allontanare al più presto dal luogo del delitto – coi due vigili notturni, che certo erano sulla piazza – ecco che aveva voluto indugiarsi a distendere il corpo sotto il bancone e a ricomporgli le membra, piegandogli le braccia sul petto! La stessa cura dell’uccisore di Crestansen, che aveva lasciato il cadavere sul letto perfettamente composto, come se dormisse. Ma dalla camera dell’Hôtel d’Inghilterra l’assassino non aveva portato via nulla e, seppure aveva aperto la valigia, non si era curato d’impadronirsi della lettera dell’Agenzia «Radio» che pure evidentemente conteneva qualche indizio non trascurabile.
De Vincenzi ricordò l’ipotesi, senza dubbio abile, del giovane Kruger: l’assassino recava alle mani guanti di lana nera. E quando era disceso per le scale, s’era messo una paglietta col nastro bianco e azzurro, la barba bionda e gli occhiali di tartaruga.
Il cervello del commissario incasellava sempre… Olivier O’Brien era alto, magro, coi baffi neri e leggermente zoppicante. Almeno, così appariva trent’anni prima…
Perché lui non aveva parlato di Olivier O’Brien a Dorotea Winckers Shanahan?
Corrugò la fronte. Aveva lasciato libera di andarsene la moglie di Giobbe Tuama, senza chiederle dove abitasse, senza farla seguire, con l’intima ed inespressa convinzione che la vecchia sarebbe riapparsa, che anzi gli avrebbe imposto la sua presenza per tutto il corso delle indagini. Ma, se invece quella lì avesse creduto opportuno scomparire, dove sarebbe andato a pescarla? No! Impossibile. C’era anche l’eredità a trattenerla e a ricondurla in via Bramante.
Scese in Piazza Cordusio ed entrò nel primo ristorante, che gli si presentò. Mangiò in fretta, sempre assorbito nei suoi pensieri.
Poco dopo le due, varcava il portone di San Fedele e si dirigeva al suo ufficio. Ma non vi si trattenne che pochi minuti. Non interrogò neppure i due vigili notturni, lasciando che li interrogasse il vice commissario Sani, a cui affidò anche la cura di ricevere quel comico tipo di Maurizio Venanzio Jacobini, quando si fosse presentato nel pomeriggio.
Era convinto che tutto quello fosse un lavoro inutile.
Sulla piazza, salì in un tassi e si fece portare in Piazza Mentana. Adesso, quel che premeva era il Pastore e subito dopo Beniamino