Pastore s’inchinò.
Sulla piazza, il commissario si volse a guardare la Chiesa. Lì dentro stava pregando Dorotea Winchers Shanahan. Ah! se quella donna si fosse indotta a parlare! Quanta fatica di meno e fors’anche quante incognite pericolose tolte di mezzo! E le reticenze del Pastore!… Perché anche costui doveva sentire il bisogno di chiudersi nel silenzio?
De Vincenzi si guardò attorno. Un oscuro istinto gli diceva che non doveva allontanarsi da quel luogo. Vide un piccolo caffè all’angolo della Piazza con via del Circo e vi si diresse. Sedette in un tavolo interno da cui per la vetrata della porta scorgeva benissimo la porticina della Chiesa. Il caffeuccio era deserto. Una giovane polputa e rubiconda gli chiese di dietro al banco che cosa desiderasse. Ordinò un liquore – lui che non beveva mai – per far salire il prezzo della consumazione. Non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto trattenersi lì dentro e credette opportuno rendersi amica la proprietaria.
Ma l’attesa non fu lunga, invece. Dopo una diecina di minuti, vide aprirsi la porticina e apparire sulla soglia l’alta e ossuta figura della vedova di Giobbe Tuama. La vecchia diede un’occhiata scrutatrice per la piazza, poi si diresse rapida, con quel suo passo rigido e pesante, verso via del Circo. Passò davanti al caffeuccio, scomparve piegando a sinistra. Camminava diritta, col cappello lucente di lustrini al sole; il volto risecchito così contratto in una determinazione testarda da sembrare un pugno chiuso; le mani sul petto, che stringevano l’eterna borsa nera.
De Vincenzi uscì in fretta e volse anche lui a sinistra per via San Sisto, giusto in tempo per vedere la donna che sbucava sul Carrobbio e scendeva per via Torino.
La filatura fu facile, perché non erano ancora le tre del pomeriggio e la domenica cominciava appena a riversare per le strade la folla consueta. Facile e rapida: la signora Winckers teneva un tal passo, che De Vincenzi calcolò a meno di dieci minuti il tempo impiegato a raggiungere il largo Cairoli. Passò davanti all’Olimpia, piegò per Piazza Castello, a destra, fiancheggiando la distesa semicircolare dei grandi palazzi marmorei.
La sua figura nera sembrava scorresse sul largo marciapiede lastricato, contro lo scenario della contrada lussuosa, col verde del Parco e la immensa mole del Castello rossastro.
Dove andava per quei luoghi, che non sembrava potessero avere alcun punto di contatto coi protagonisti della tragica vicenda, ai quali fino allora aveva servito di sfondo la miseria certosina delle stanzucce di via Bramante e l’austerità di un presbiterio?
Poteva credersi che la vecchia abitasse in uno di quei palazzi?
Eppure, fu proprio il portone di un fabbricato di Piazza Castello che ella varcò, scomparendovi.
De Vincenzi si fermò sorpreso e imbarazzato sul marciapiede. Che cosa avrebbe fatto, adesso? Naturalmente, poteva interrogare i portinai, ma era quello il mezzo migliore? O non più tosto conveniva attendere con pazienza che la donna tornasse a mostrarsi per riprendere a seguirla? Ella poteva ricomparire da un momento all’altro, e, se si fosse incontrata con lui dentro il portone, si sarebbe necessariamente messa in sospetto.
Decise di attendere e andò a mettersi dal lato opposto, tra le piante del Parco.
Attese più di mezz’ora. La signora Winckers Shanahan non compariva. Era il compito di un agente o di un giovane commissario agli esordi, quello che lui stava facendo. Una filatura delle più semplici e un piantonamento esasperante! E ancora senza che lui stesso ne sapesse la ragione. Perché aveva seguito la donna? Che cosa sperava che potesse rivelargli? Era la moglie legittima di Giobbe Tuama, sicuro; ma per questo quale luce le sue parole e i suoi atti potevano gettare sui delitti e sull’autore di essi? Le parole di lei, sia pure, se si fosse indotta a parlare, avrebbero potuto forse rivelare qualcosa del lontano passato di quell’uomo, che con tutta probabilità doveva proprio al suo passato la morte; ma i suoi atti? Perplesso, De Vincenzi rimaneva lì, davanti a quel palazzo bianco, nel portone del quale la vecchia era entrata e in cui era anche possibile ch’ella abitasse, sicché ad attenderla c’era da correre il rischio di non vederla ricomparire che all’indomani! E, invece, lui avrebbe potuto far qualcosa di molto più utile alla Fiera di Piazza Mercanti o nel suo ufficio o altrove, all’Hôtel d’Inghilterra, per esempio…
Rifletteva a tutto questo e nello stesso tempo sentiva che alcunché d’impreveduto e d’essenziale stava per accadere e che la sua fatica non era perduta.
Passavano i minuti. Lenti e uggiosi. Le panchine di quella striscia esterna del Parco, al di là del fossato, si andavano popolando di famigliuole rumorose, di soldati, di giovanette dai vani dialetti, che mostravano mani rosse e piedi troppo grandi.
Alle sedici, il commissario ebbe la convinzione che Dorotea Winckers Shanahan si fosse rifugiata in casa sua e che sarebbe uscita quando sarebbe uscita, a tutto suo comodo.
Traversò lentamente il viale ed entrò nel portone, che un’ora prima era stato varcato dalla vecchia. Una giovane donna con un bimbo in braccio e una giovanetta erano sedute davanti alla vetriata della portineria.
— Abita qui la signora Winckers Shanahan?
La giovane lo guardò, meravigliata.
— No – rispose. – Lei deve aver sbagliato numero. Nessuno degli inquilini di questa casa ha un nome come quello lì…
— Circa un’ora fa, è entrata in questo portone una signora vestita di nero, con un cappello carico di lustrini… piuttosto anziana… diritta, rigida…
Negli occhi della portinaia lampeggiò la diffidenza.
— Uhm!… Ma lei…
La giovinetta toccò vivamente il braccio della donna ed esclamò:
— È la governante della signorina Lolly, zia!
— Zitta, Agnese! – le impose la portinaia e si volse di nuovo verso il commissario. – Come dice mia nipote, forse si tratta della governante di una inquilina del palazzo; ma lei come fa a sapere che è rientrata un’ora fa?
De Vincenzi sorrise.
— Assai probabilmente, perché l’ho veduta entrare. E l’ho veduta entrare, perché l’ho seguita. Non mi chieda la ragione per la quale l’ho seguita, dacché non potrei dirgliela.
Tese la mano aperta e sulla palma mostrò il distintivo.
— Polizia… – aggiunse, accentuando il sorriso e ancor più soavemente continuò: – Nulla di grave e nulla di preoccupante per lei e per la sua inquilina. Ma occorre che mi dia qualche informazione. Questa signorina Lolly chi è?
Le due giovani erano state a sentire il suo breve imbonimento ad occhi spalancati.
— Ho capito! – fece la portinaia e tacque.
— Dunque?
— Ah!… La signorina Lolly è un’americana… Il cognome è Daun… Aspetti… – e si volse alla nipote: – Va’ a prendere il registro degli inquilini…
La giovinetta sprizzò in portineria e tornò col registro.
— Ecco, guardi qua…
La donna porse il quaderno aperto al commissario, che lesse: Lolly Down, 28 anni, New York.
— Sola?
— Con la governante… quella vecchia sempre vestita di nero, che lei ha veduta entrare… la cameriera e il cane…
— Che cosa fa?
— Nulla. Dev’essere ricca.
— Riceve molte persone?
— Quasi nessuno.
— Intendiamoci. Neppure una persona… di frequente, con regolarità, in modo che si possa credere…
— …che sia il suo amante? No. La signorina non è quello che lei può supporre.
— Da quanto tempo abita in questa casa?
—